Il valore della vita di Charlie Gard è in sé e non in una sentenza
Tutti ormai sono informati circa il caso di Charlie Gard, affetto da malattia genetica, la cui vita dipenderà dalla decisione che domani giungerà, da Strasburgo, dalla Corte Europea per i diritti umani.
Nonostante il parere contrario dei genitori che vedono una speranza per loro figlio, la vita di questo bambino è appesa alla decisione di organi giudiziari che vedono, pian piano ed in modo silente, slittare le loro competenze al di là di quelle che sono loro proprie: giudicare appunto, giudicare però la violazione delle leggi e non altro. Siamo ancora una volta a confrontarci con il GodCommittee che, in altre epoche, era deputato a decidere chi poteva o meno accedere alla nuova possibilità offerta dalla dialisi.
Non c’è nulla da fare: la quality of life è divenuta ormai il criterio fondante dell’agire umano; un criterio che nasconde in sé aberranti contraddizioni.
Da questo pensiero vogliamo prendere le distanze e, con le riflessioni offerte, far prendere consapevolezza che:
“la vita in se stessa sia un bene, prima ancora di ogni ragionamento possibile, è comune percezione immediata che ciascuno di noi può riconoscere in sé, nella propria reazione alle mille occasioni di ‘offesa alla vita’ con cui quotidianamente impatta”[1].
La tradizione morale cattolica e l’autorevole Magistero hanno sempre ritenuto la vita come un bene che deve essere tutelato e hanno sempre considerato come ‘parte’ del Quinto Comandamento: Non uccidere, il dovere morale di conservare la propria vita e di tutelare la propria salute.
Nel Rituale del Sacramento per l’Unzione degli Infermi si legge:
“Rientra nel piano stesso di Dio e della sua provvidenza che l’uomo lotti con tutte le sue forze contro la malattia in tutte le sue forme, e si adoperi in ogni modo per conservarsi in salute: la salute, infatti, questo grande bene, consente a chi la possiede di svolgere il suo compito nella società e nella Chiesa”[2].
La salute è sempre stata considerata come un bene di grande valore in quanto condizione favorevole per la sua realizzazione; essa non ha mai costituito un valore assoluto ma sempre relativo al bene sommo della vita eterna. Teologicamente parlando la salute va considerata come dono da proteggere, promuovere, conservare; la salute, oltre che dono è anche compito per l’uomo[3].
In considerazione di ciò la dottrina cattolica ha sempre ribadito che la vita umana va sempre tutelata e promossa ma mai deve essere esasperata. La frase appena descritta sintetizza tutto un percorso di riflessione[4] teologico-morale, iniziata nel XVI secolo, circa la doverosità o meno di certe terapie in considerazione della situazione soggettiva in cui versa la persona portando, come è ben noto, al rifiuto sia dell’accanimento terapeutico che a quello dell’abbandono terapeutico. Per questo si è cristallizzata la distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati; mezzi ordinari e straordinari che fra loro sono concetti diversi, oggi abusati e mal compresi e ciò ingenera una grande confusione.
L’accanimento terapeutico determina una esasperazione della vita umana non riconoscendone una dato fondamentale che è quello della creaturalità e provoca sofferenze senza senso nella vita di un paziente; l’abbandono terapeutico è l’atteggiamento opposto che non considera la dignità della persona come sopra esposta.
La nuova Carta per gli Operatosi sanitari ci ricorda che la professione medica è a servizio della vita umana[5]; una professione che tutela la vita come bene in sé; il testo ricorda inoltre che la perizia medica, le capacità tecnico-scientifiche, per quanto importanti e doverose, da sole non riescono a cogliere tutta la portata del reale, hanno bisogno anche di sapienza[6]: la scienza deve essere alleata della sapienza per poter promuovere il vero bene dell’uomo.
Ciò conduce all’accompagnamento del morente da parte degli operatori sanitari perché le persone possano morire con dignità. Accompagnare però un processo naturale non significa provocare la morte col fine di evitare il dolore. Ecco il punto. Ciò che non può essere accettata è l’eutanasia definita come: ogni azione o omissione che nell’intenzione vuole sopprimere la vita per evitare il dolore. Arriviamo, credo, al punto della situazione.
A bene vedere ciò che sta dietro tutto questo discorso non riguarda la libertà e dico ciò in relazione al fatto che è stato:
“affermato che la possibilità di decidere autonomamente se esistere o non esistere è il fondamento di ogni altra libertà”[7].
Faccio mio un esempio che è riportato in letteratura bioetica[8]: sono cosa comune gli episodi in cui delle persone salvano altre dalla morte o dal pericolo di morte; un nuotatore che salva colui che si è gettato nel fiume per uccidersi; i vigili del fuoco salvano chi si vuol gettare nel vuoto da una finestra; chi si avvelena viene sottoposto a lavanda gastrica, e simili. In questi e simili casi chi impedisce l’autodeterminazione della persona coinvolta non viene denunciato né punito per aver commesso reato; anzi, si viene elogiati, anche con pubblici encomi per gesti e valori che vengono considerati anche di grande eroismo. Già questi esempi ci fanno percepire un senso comune riguardo la vita umana.
Ancora: si potrebbe replicare che il suicidio non è frutto di autentica libertà perché commesso in stato di confusione mentale o, certamente, di non piena lucidità. Non sempre è così: mettiamo il caso di un giovane sano, bello, intelligente che, dopo aver riflettuto, decide di farla finita e tale decisione è frutto di una sua lucidità mentale. A nessuno verrebbe in mente di affermare che, impedirgli di morire, significherebbe ledere il suo diritto di autodeterminazione, ciò invece lo vogliamo affermare per il malato incurabile. Perché?
In realtà il punto su cui poggia la mentalità non è il concetto di libertà bensì quello di qualità della vita per la quale la vita, sotto una soglia condivisa da tutti come un minimo standard, non è più degna di essere vissuta. La qualità della vita prevale sulla vita stessa.
Per ovvi motivi non possiamo entrare nel pensiero circa la quality of life ma solo porre alcune affermazioni che ci conducono all’ultimo punto della nostra riflessione: perdere la vita significa perdere la libertà perché la vita è il presupposto per l’esercizio della libertà. Chi salva una persona dal suicidio, non soltanto salva la sua vita ma dona alla persona la sua libertà. La libertà, nella nostra antropologia di riferimento, non è una assenza di norme e di esigenza bensì una progettualità per il bene: non una libertà da ma una libertà per.
Entriamo così nel punto pruriens che è la considerazione del dolore umano.
“Dov’è Dio quando un uomo soffre? Dio è presente nella fede del credente che coglie accanto a sé la presenza consolante dell’Uomo crocifisso ed è presente tangibilmente in tutti coloro che servono con amore il loro fratello sofferente. Dio è dove sei tu, Dio è presente dove tu sei capace di prendere per mano chi soffre e se ne va. Dalla contemplazione della croce scaturisce, infine, un’intuizione che rischiara la notte del male di luce definitiva, e si dischiude la possibilità di una speranza che non delude le nostre attese. Se veramente Dio si impegna con l’uomo, se davvero Egli stringe alleanza con ciascuno di noi, se davvero Egli è stato disposto a dare la vita per ciascuno di noi, allora le nostre esi-tenze, per quanto fragili, assurde, inutili hanno valore ai suoi occhi. Il fatto che io sia un qualcuno davanti a Dio, il fatto che Egli entri in relazione con me, in quanto sua creatura, il fatto che Egli si ponga accanto a me e non mi abbandoni neppure nel momento della prova estrema, tutto questo mi fa intuire che il male non può essere l’ultima parola sulla mia esistenza. Per coloro che soffrono e muoiono nella speranza pasquale del Cristo morto e risorto, la morte può diventare la risposta all’estrema vocazione di Dio creatore e signore, il compimento del dono della vita, l’ultimo passaggio, attraverso i dolori e le pene che segnano la nostra esistenza terrena, verso gli orizzonti di una vita più grande della morte”[9].
Qui si risolve la questione: non tanto nel concetto di libertà, di autodeterminazione o di civiltà. La questione è: saper accogliere la vita per ciò che essa è e ciò che essa comporta sapendo che anche il dolore e la morte, vissuti in prospettiva cristiana, hanno un senso e si aprono ad una possibilità.
Ci illuminano le parole della Spe Salvi quando il Papa dava un’affermazione forte e in grado di infondere un grande coraggio: il coraggio per noi evangelizzatori di proclamare la verità delle cose, il coraggio di ciascun uomo di affrontare le esperienze che la vita, inevitabilmente, porta con sé:
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla… se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me (Sal23 (22), 1.4). Il vero pastore è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell’ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte, l’ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova”[10].
Con la speranza, domani, di non assistere – seppur con diverse modalità – ad una nuova raccapricciante scena, simile alle tante degli orrori nazisti, in cui il figlio viene strappato dalla mano dei genitori e dalle mani della vita solo perché malato, solo perché impossibilitato a produrre in termini di lavoro o economici; la persona però è ben altro: la persona non può essere ridotta a costi o spese di bilancio, perché in fondo, questo è il problema per quelle che si definiscono le moderne mentalità.
Prof. Giorgio Giovanelli,
Docente di Teologia Morale presso la Pontificia Università Lateranense
[1] M. Calipari, Curarsi e farsi curare: tra abbandono del paziente e accanimento terapeutico, San Paolo, 2006, 24
[2]Conferenza Episcopale Italiana, Rituale del Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi, Introduzione, 3.
[3] M. Calipari, Curarsi e farsi curare, 37.
[4] Per una analisi approfondita del dato storico si rimanda a M. Calipari, Curarsi e farsi curare, 39-82.
[5]Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la pastorale della salute),Nuova Carta degli Operatori Sanitari, LEV, 2017,48.
[6] Idem, 50.
[7] Cfr. C. Casini – M. Casini – M. L. Di Pietro, Testamento biologico, quale autodeterminazione?, Società Editrice Fiorentina, 2007, 77.
[8] Cfr. Idem, 81-87.
[9] M. P. Faggioni, Il dolore e la cura del dolore in prospettiva cristiana, in G. Giovanelli (cur.), Bioetica del dolore,Cantagalli, 2010, 89-93.
[10]Benedictus PP. XVI, Spe Salvi, 6.