Giubileo del 2000: la storia di una conversione alla vita (a cura di Andrea Mazzi)

In occasione della veglia di chiusura della 3a edizione della ‘40 giorni per la vita‘, sono state lette alcune testimonianze. Condivido la sintesi della testimonianza di una dottoressa che ha partecipato alla 40 giorni (non so chi sia) che ha scritto per noi la sua testimonianza. Prima praticava aborti e poi si è convertita.

a cura di Andrea Mazzi

«Ecco la mia storia di convertita dalla pratiche inerenti l’aborto e di convertita (o ri-convertita) alla fede.

Nasco in una famiglia credente, ricevo tutti i sacramenti e seguo le normali pratiche di formazione cattolica. Ricordo anche di essere stata una bambina abbastanza “promettente”, tanto che quando ero in prima media, la Madre Superiora della piccola comunità di suore che facevano catechismo nella mia parrocchia, venne a casa mia e chiese a mio padre il permesso di portarmi alcuni giorni a fare esercizi spirituali, ma papà rifiutò preoccupato per la mia salute cagionevole.

Dopo le medie arrivò il liceo e poi l’università. Nuovi ambienti, nuovi amici, nuove idee molto lontane e molto diverse da quelle udite fino poco tempo prima. Idee e compagnie molto accattivanti e coinvolgenti tanto che abbandonai del tutto la pratiche religiose e giunsi fino a dubitare delle presenza di Dio.

Scelsi la facoltà di Medicina e questo aumentò il mio bisogno di dare a tutto una spiegazione logica e scientifica.

Dio e tutto il resto diventarono una bella favola. Bella e anche un po’ noiosa…

L’ultimo anno di medicina scelsi di preparare la tesi presso la clinica Ostetrica e Ginecologica. Di questa specialità mi piaceva la coesistenza di una parte prettamente internistica con una chirurgica.

Mi laureai nel 1980 e l’anno successivo entrai come specializzanda in clinica. Da pochi anni, nel 1978, era stata approvata la legge 194 che regolamentava l’interruzione volontaria di gravidanza e io mi trovai d’accordo con la sua applicazione.

Iniziai la mia attività pratica di medico e la mia formazione come specialista in ostetricia e ginecologia. Per guadagnare i miei primi soldini iniziai a fare le guardie mediche notturne e festive sul territorio mentre durante la settimana frequentavo il reparto ospedaliero svolgendo le attività che mi venivano indicate dal direttore e/o dai vari caporeparto. Dopo un iniziale periodo di attività svolta con e sotto la supervisione dei medici specialisti strutturati, via via che imparavo le varie tecniche, venni lasciata sola a svolgere in autonomia sia compiti clinici (visite ginecologiche e ostetriche negli ambulatori esterni preposto o inviate dal P.S.) che di piccola chirurgia. La piccola chirurgia consisteva essenzialmente nelle episioraffie o in suture di lacerazioni vagino-perineali

conseguenti al parto o asportazioni di polipi del canale cervicale evidenziati in corso di colposcopia.

La “piccola chirurgia” delle IVG

Poi c’era un’altra “piccola chirurgia” che ben presto veniva lasciata quasi totalmente a noi specializzandi visto che gli specialisti dovevano occuparsi di interventi più “importanti”. Quegli interventi di piccola chirurgia erano le interruzioni volontarie di gravidanza. Erano i primi anni 80 e la clinica dedicava almeno 3 mattine alla settimana per questi interventi poiché c’era molta richiesta.

Io ero fra quei medici che accettarono di eseguire IVG senza battere ciglio, anzi addirittura pensando di fare qualcosa di utile per le donne evitando loro di abortire in condizioni igienico sanitarie pericolose per la loro vita.

Questo era l’argomento che allora andava per la maggiore e che forse tacitava un po’ la mia coscienza.

C’era sempre una media di 5-6 donne per seduta. Ogni intervento era preceduto, in una saletta adiacente alla sala operatoria, da un incontro con le donne in attesa di eseguire l’aborto. L’incontro era volto unicamente al controllo di dati anagrafici e anamnestici. Nessun cenno su quello che stavano per fare…Io ricordo che a volte dopo aver controllato i dati dicevo loro che avrebbero dovuto dimenticare completamente questo episodio della loro vita. Che stupidità: come se fosse stato possibile!!

L’intervento in sé era semplicissimo: visita della paziente, anestesia locale, attesa di qualche minuto perché l’anestesia facesse effetto, dilatazione dl collo dell’utero con appositi ferri di diametro crescente, introduzione della cannula aspirante (di calibro diverso a seconda delle settimane di amenorrea), inizio dell’aspirazione. Dalla cannula trasparente, collegata a un raccoglitore, cominciava ad uscire materiale semiliquido prevalentemente rossastro.

Quando l’uscita di questo materiale finiva, estraevo la cannula poi eseguivo un’ultima pulizia raschiando la cavità uterina manualmente con uno speciale ferro fatto a cucchiaio chiamato courrette. Finito.

Tutta l’operazione durava non più di 10/15 minuti. La donna tornava nella saletta e attendeva di essere rivisitata prima della dimissione. Mai mi sono soffermata a pensare cosa fosse quel materiale in parte liquido e in parte solido che usciva dalla cannula.

Qualcosa…

Un giorno però dovetti per forza rendermene conto. Ero all’ennesima interruzione di gravidanza, avevo inserito la cannula e iniziato l’aspirazione ma non usciva quasi nulla, sembrava intasata da qualcosa. Allora estrassi la cannula e guardai attraverso lo speculum; vidi qualcosa che fuoriusciva dal collo dell’utero ma non capivo cosa fosse, però capivo che era sicuramente ciò che ostruiva la cannula. Presi una pinza per estrarre quel “qualcosa” e quando la pinza uscì vidi che stringeva una piccolissimo arto inferiore.

Ricordo che sul momento ci rimasi veramente molto male ma poi continuai quell’intervento e continuai con quelle pratiche non riuscendo (o forse non volendo) ancora a rendermi conto dell’atrocità di quello che stavo facendo.

Vivevo una sorta di dualismo schizofrenico: un giorno visitavo donne gravide, il giorno dopo praticavo aborti.

Nessun dubbio

La mia vita lavorativa continuava dividendosi tra attività specialistica in clinica non retribuita -guardie notturne e festive comprese- e servizio di guardia medica per l’Usl per poter guadagnare qualcosa.

Nel 1982 ottenni la convenzione come medico di medicina generale nel mio paese che accettai di buon grado in attesa di vedere come evolveva la situazione nel campo specialistico. Le guardie che facevo sia in clinica che sul territorio erano diventate molto frequenti, impegnative e stancanti visto che dopo una notte passata in un turno di guardia medica dovevo comunque andare in clinica la mattina successiva. Le possibilità che si offrivano erano quelle di entrare in piccoli reparti di ospedali di provincia con turni di guardia ancora più serrati. Per contro i medici di base avevano ottenuto da qualche anno la possibilità di essere aiutati nella reperibilità notturna e festiva dal

servizio di Guardia Medica. Per farla breve decisi di finire il quadriennio e conseguire la specializzazione ma continuare con la mia attività di medico di base senza fare concorsi per entrare in qualche piccolo reparto ospedaliero.

In qualche anno divenni massimalista e la mia attività giornaliera era occupata quasi interamente, direi al 95 % dalla medicina di base. Mi ero ritagliata un piccolo spazio serale in cui facevo un minimo di attività specialistica giusto per non abbandonare del tutto le conoscenze che avevo appreso nei 4 anni di frequenza ospedaliera.

Non eseguivo più IVG direttamente ma continuavo a farlo indirettamente rilasciando alle donne, che me ne facevano richiesta, la certificazione necessaria per accedere all’aborto legalizzato. Non mi sfiorava nessun dubbio, nessun ripensamento.

Il battito cardiaco: una gioia intensa

Nel contempo seguivo anche donne in gravidanza e ricordo con quanta ostinazione cercavo, già alla prima visita e cioè in gravide alla 6°-7° settimana di amenorrea (praticamente a 2-3 settimane dal concepimento), di far sentire, o meglio, anche solo far percepire per qualche secondo il battito del cuore del loro bambino. Lo cercavo cosi ostinatamente perché da un lato era un importante dato clinico di vitalità fetale, ma anche perché sapevo che ogni volta che riuscivo a sentirlo così precocemente mi invadeva una intensa e gioiosa emozione, quasi una marea montante di inspiegabile e dolcissimo stupore di fronte alla forza miracolosa della vita. Pochi millimetri e un cuore che batte!

Ma continuavo a non capire, a non voler ascoltare quella voce che sembrava nascermi dentro, rendendomi inquieta.

Gli anni intanto passavano, continuavo con il mio tran tran lavorativo, continuavo con la mia latente insoddisfazione, continuavo a non credere in Dio.

I due gemelli

Quasi tutti i fine settimana facevo la turista e visitavo le bellezze artistiche sparse nei paesi, nelle città e nelle regioni vicine a me sia del nord che del centro Italia. Verso la fine degli anni ’90 capitai nel senese e nel comune di Montalcino rimasi particolarmente colpita della bellezza di un’abbazia romanica: l’abbazia di Sant’Antimo. Ricordo che venni sgridata da un frate della Comunità premostratense che vi abitava perché, incurante delle transenne che vietavano l’ingresso, ero entrata nella zona privata del chiostro per scattare foto ad alcuni particolari di un architrave menzionato nella mia inseparabile guida. Il mio viaggio prosegui e mentre lasciavo Sant’Antimo pensavo che quei frati erano proprio cattivi!

A casa, sul lavoro continuavo ad avvertire un larvato ma persistente fastidio nell’affrontare le tematiche relative all’interruzione di gravidanza. Arrivò il giorno in cui una signora, che avevo già seguito nelle sua prima gravidanza, venne per dirmi di essere di nuovo incinta. Questa seconda gravidanza era stata cercata e tutto procedette bene finché l’ecografia non evidenziò che gli embrioni erano 2! Questa scoperta sconvolse la donna a tal punto da affermare con risolutezza che “era pronta per un figlio ma due non li voleva” e mi chiese di farle il certificato per l’interruzione. Per la prima volta sentii di dovermi opporre a quella richiesta, per la prima volta parlai con quella

donna, chiesi le motivazioni di quella scelta apparentemente insensata, provai a trovare le parole giuste per dissuaderla ma restò irremovibile tanto che alla fine, dopo quasi un’ora di  “trattative” infruttuose, cedetti e le feci la certificazione pregandola un’ultima volta di ripensarci. Pensai con tristezza che non l’avrei più vista. Invece circa un mese dopo si ripresentò: era ancora incinta e mi chiese di seguire la sua seconda gravidanza fino al momento del parto. Non toccammo mai più l’argomento emerso nella prima visita.

Mi resi conto che questo avvenimento aveva scosso qualcosa in me, aveva risvegliato in qualche modo la mia coscienza che cominciava ad avanzare le sue obiezioni circa la liceità dei miei comportamenti. Non avevo però ancora raggiunto totale consapevolezza delle mie abissali mancanze.

Turista nel Giubileo del 2000

Torniamo a me come turista e a Sant’Antimo. Nel 2000, anno del giubileo, lessi per caso su una rivista femminile un articolo che parlava dei monasteri che offrivano ospitalità nelle loro foresterie. Fra questi monasteri c’era anche Sant’Antimo: la cosa mi incuriosì e decisi di regalare, per il compleanno delle mia più cara amica nonché compagna di tanti viaggi, il soggiorno di una notte in quella foresteria. Il soggiorno in una foresteria non poteva mancare dal nostro bagaglio turistico! In Giugno, il giorno del compleanno, si parte in tre per Sant’Antimo: io, la mia amica e un altro amico comune. Ovviamente, per me, abituata ad altro tipo di ricettività alberghiera, l’impatto con la stanza

spoglia della foresteria fu abbastanza deludente. Poi il frate che si occupava dell’accoglienza, non lo stesso che mi aveva sgridato 2 anni prima, ci “consigliò vivamente” di partecipare a una delle loro liturgie. Per accontentarlo scendemmo per la Compieta, che non sapevo neanche cosa fosse. Scoprii cosi che la Comunità era composta da 7 frati, tutti sacerdoti, che seguivano la regola di  Sant’Agostino ed eseguivano tutte le loro unzioni liturgiche in latino e in canto gregoriano. La Compieta che iniziò con la composta processione dei frati nelle loro scenografiche vesti

bianche, seguita dal quel canto alternato mistico e solenne che sembrava salire e trascinare fino in cielo, fu per me uno “spettacolo” nuovo e in certo modo affascinante. Uscendo, dopo Compieta, rimasi colpita anche dallo spettacolo delle centinaia di lucciole che brillavano nei prati intorno all’Abbazia. Ma fu un fascino passeggero, il mattino dopo si ripartì.

Il fascino di quel luogo e di quel canto però aveva colpito fortemente il mio amico che mi “torturò” per settimane perché ci tornassimo. Decisi di accontentarlo in agosto lasciandolo a Sant’Antimo mentre io proseguivo in auto per Roma. Rimasi a Roma 2 giorni e poi ripartii alla volta di Sant’Antimo dove avrei pernottato: era la vigilia dell’Assunzione. Arrivai nel tardo pomeriggio, incontrai il mio amico e decisi di partecipare con lui alla Compieta. Ora sapevo cos’era: di nuovo vidi la processione silenziosa e composta di quelle vesti bianche, di nuovo udii il canto inondare le navate della chiesa. Poi il canto cessò, le luci si spensero, iniziò il grande silenzio della notte. Mi avviai verso l’uscita, ancora credendo che Dio non esistesse; sulla soglia del portone mi volsi per dare l’ultima occhiata alle navate tenuemente illuminate dai lumini posti davanti alla statua della Madonna e vidi tutti i frati inginocchiati in preghiera sul nudo pavimento davanti alla statua di Maria che teneva in braccio Suo figlio.

In quel momento i miei occhi hanno visto e il mio cuore e la mia mente hanno inteso qualcosa che non era prevedibile, né immaginabile fino a pochi istanti prima. Ho sentito distintamente la “voce” di un pensiero penetrarmi e sussurrare alla mia anima che Dio non poteva non esistere. Tutto apparentemente era come prima ma tutto era profondamente cambiato. Uscii da quell’abbazia con nel cuore tanto stupore e una profonda dolcezza.

Il mattino successivo, giorno dell’Assunzione, scesi presto in Abbazia. Dico “scesi” perché l’abbazia sorge isolata in una piccola conca fra le colline, mentre la foresteria, dove avevo di nuovo dormito, è situata in alto a circa un km di distanza nel piccolo borgo costruito su di un colle sovrastante l’abbazia.

Entro in chiesa, dove c’è già molta gente, e noto che ci sono vari frati che confessano. Io sono decenni che non mi confesso e sento il bisogno di farlo. Entro nel confessionale, balbetto le mie colpe fra singhiozzi e lacrime irrefrenabili. Il sacerdote mi da l’assoluzione, Dio mia ha perdonato!

Torno a casa e la mia vita scorre come prima, ma ora tutto è diverso. Il mio cammino ha ritrovato un senso e una meta.

Essere per la vita

Sul lavoro cambio direzione in modo drastico e finalmente consapevole. Dico basta a tutto ciò che può impedire la vita: basta certificati per IVG, basta inserimenti di contraccettivi intra-uterini -le cosiddette spirali-, basta prescrizione della pillola del giorno dopo. Dialogando con le mie pazienti, motivo sempre le ragioni della mio cambiamento di rotta, delle mia nuova scelta. La scelta come medico, come donna, come credente di non ostacolare più in nessun modo la nascita di una nuova vita. Spendo tanto tempo con le donne incinte che mi richiedono il certificato per abortire. Cerco di ascoltarle ma nel contempo cerco di insinuare nella loro mente la

consapevolezza dell’atrocità che stanno per commettere: mi definisco l’avvocato difensore del loro bambino che non ha voce per parlare, per gridare il suo diritto a nascere, che non ha nessuno che lo protegge, nemmeno sua madre. Dico cose dure con la maggior dolcezza e comprensione possibile. Non so quante donne ho convinto.

Alcune lo so perché sono tornate, la maggioranza però non l’ho più vista e so che hanno scelto altri medici. Ricordo con intenso e struggente piacere il giorno in cui entrò nel mio studio la signora del parto gemellare. Non era venuta da sola, come al solito, ma accompagnata da due bei bambini. Me li presentò con orgoglio e poi mi sussurrò: «Questi sono anche figli tuoi».

I miei occhi si bagnano ancora di lacrime al solo rievocare questo istante e al pensiero di quanti bambini invece non sono nati per colpa mia.

Questo orrore mi è stato perdonato da Dio ma non potrò mai cancellarlo dalla mia memoria.

Ora sono in pensione da 4 anni e cerco di aiutare il prossimo anche facendo volontariato con la Caritas della mia parrocchia. In questo contesto ho potuto conoscere meglio un parrocchiano molto attivo con iniziative a carattere sociale, come le raccolte alimentari, e membro di alcune associazioni cattoliche. Fu il primo a parlarmi dell’iniziativa dei “40 giorni per la Vita” e a caldeggiarmi la partecipazione ai turni di preghiera. Ricordo che quando me ne parlò la prima volta, circa 2 anni fa, pensai che questa iniziativa fosse quella di un gruppo di “esibizionisti” un po’ esaltati che si sarebbero riuniti davanti al Policlinico solo per farsi vedere e per fare 2 chiacchiere in compagnia svilendo o peggio ridicolizzando un problema incredibilmente serio. Poi lo scorso anno decisi di vedere di persona di cosa si trattasse e la mia opinione cambio radicalmente. Quelle persone pregavano davvero, pregavano e basta. Mi accorsi che mi piaceva pregare con loro perché la mia preghiera era meno distratta, più indirizza verso il cielo e soprattutto perché mi sembrava giusto, giustissimo, pregare silenziosamente ma facendosi vedere, essere testimonianza orante visibile e non nascosta, essere con coraggio e perseveranza contro corrente e a favore della

vita, essere “luce sopra il moggio”…

Ecco la mia storia che può condensarsi in 2 immagini che accompagneranno sempre la mia vita:

un piccolo arto violaceo: il mio tormento

un sacerdote che mi assolve: la mia consolazione.

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