Roe vs. Wade, aspettando la decisione della Corte

di Antonio Baldassarre

Si è tornati a parlare della sentenza Roe vs. Wade, la prima in Occidente che nel 1973 ha riconosciuto il diritto della donna all’aborto, perché è attesa nei prossimi mesi una decisione della Corte Suprema americana sulla stessa materia. Con una particolarità però: la Corte che deciderà il caso, prevedibilmente il prossimo luglio, è composta in prevalenza da giudici che in passato, prima di essere nominati, si sono detti critici di quella sentenza.

In effetti la motivazione e, ancor più la decisione, contenuta nella sentenza del 1973 non può non lasciare perplessi.

Il principio base da cui essa parte e che il feto può essere considerato una persona umana, almeno per il diritto, soltanto quando, separato dal grembo materno, sarebbe capace di sopravvivere autonomamente (e. d. principio della vitalità).

Partendo da questa premessa la Corte ha stabilito i termini temporali per poter interrompere la gravidanza entro i sei mesi dal concepimento, dividendo però il periodo in due fasi di tre mesi l’una. Nella prima, la donna può abortire liberamente, nella seconda per poterlo fare ha bisogno di un certificato medico.

Come avviene ormai da tempo nei rapporti tra Europa e America, questa novità è stata seguita dalle Corti e dai legislatori di pressoché tutti i Paesi Occidentali anche se per lo più con una disciplina parzialmente diversa, normalmente più restrittiva.

La principale insoddisfazione di quella sentenza e di quelle che ne hanno seguito la scansione temporale, anche se con motivazioni apparentemente diverse, sta nel fatto che l’individuo portato in grembo dalla madre non viene considerato in sé come un corpo che, se lasciato nell’utero materno, si svilupperebbe esattamente come si sono sviluppate tutte le persone umane esistenti al mondo. No. Esso viene considerato come un soggetto umano soltanto quando è ritenuto capace di relazionarsi socialmente, cioè soltanto quando può essere parte attiva della società.

È troppo facile vedere la pericolosità di tale principio in relazione alle aberranti conseguenze che da esso potrebbero essere tratte. Ma nel 1973 c’erano ancora gli echi del 1968, quando si diceva «il privato è pubblico». Tuttavia, nonostante che quella cultura sia stata superata, oggi l’aborto è ancora visto, anche se non se ne comprendono i motivi, come funzionale alla «liberazione» della donna. È questo oggi il motivo avanzato dai movimenti femministi e da tutto il coro di intellettuali e giornalisti che affollano i mezzi della comunicazione di massa dominanti.

Occorre domandarsi, però, cosa realisticamente ci si può attendere dalla sentenza che verrà decisa nelle prossime settimane.

È assolutamente irrealistico pensare a un rovesciamento totale della decisione del 1973, sia per motivi strettamente giuridici (in America c’è la regola del «precedente»), sia per motivi legati al modo in cui l’opinione pubblica potrebbe accogliere una decisione di quel genere (qualsiasi Corte, per essere efficace, non può delegittimarsi nell’immagine pubblica). È probabile, quindi, che la Corte Suprema faccia valere limiti più stringenti, magari rivedendo (ma questo sarebbe il massimo che si potrebbe sperare) il famigerato principio della vitalità.

C’è un’ultima avvertenza da fare. Gli Stati Uniti sono una Federazione e la competenza penale, e quindi la punibilità di certe ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza, rientra nella competenza dei singoli Stati-membri. Già oggi l’aborto è disciplinato diversamente da Stato a Stato: più permissivamente nei grandi stati costieri (New York, California), molto meno in quelli del Sud. La Corte Suprema, quindi, fisserà i paletti, al di là dei quali non potranno andare i legislatori dei singoli Stati.

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