Lo scivoloso pendio della morte medicalmente assistita
8 aprile 2019. Audizione del Movimento per la vita da parte delle commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera dei deputati sulle proposte di legge di iniziativa popolare n.2 e PdL Cecconi n. 1586
La valutazione del Mpv sulle due proposte di legge sull’eutanasia non può prescindere dal quadro legislativo di riferimento sul fine vita, che riguardo questa audizione vede tre elementi.
Il primo è la legge 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, già in vigore.
Il secondo è dato dalle due pdl oggetto specifico dell’audizione di oggi: la n.2 è di iniziativa popolare, presentata alla Camera dei deputati nel 2013, prima dell’approvazione della l.219, alla quale si sovrappone parzialmente e dalla quale è stata superata nella parte relativa al rifiuto e all’interruzione dei trattamenti sanitari.
La pdl n.1586, del deputato Cecconi, propone invece una modifica della l. 219, inserendo norme a regolazione dell’eutanasia, riprese in parte dalla pdl n.2.
Il terzo elemento è l’ordinanza n.207/2018 con cui la Corte Costituzionale ha dato un anno di tempo al Parlamento perché intervenga riguardo alla depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, in riferimento al caso di “dj Fabo”: la Consulta ha suggerito, a tal fine, di modificare la l. 219 anziché l’art.580 del codice penale, dedicato alle sanzioni di aiuto e istigazione al suicidio e oggetto del quesito posto alla Consulta. La Consulta ricorda che la l.219 già consente di “liberarsi delle proprie sofferenze” rifiutando trattamenti di sostegno vitale e ricorrendo contestualmente alla sedazione palliativa profonda. Accanto a questa possibilità, già esistente, la Corte suggerisce di introdurre anche quella di somministrare “un farmaco atto a provocare rapidamente la morte …. inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da iscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia fra paziente e medico”.
Se il parlamento non prenderà iniziativa in merito, il prossimo 24 settembre la Corte si pronuncerà a riguardo, plausibilmente depenalizzando l’aiuto al suicidio.
In questo contesto, la pdl n.1586 si pone come risposta alle indicazioni della Consulta.
La valutazione dei due pdl oggetto di audizioni non può quindi prescindere da questo quadro complessivo.
Specifichiamo innanzitutto che per il Mpv non è rilevante la differenza fra eutanasia e suicidio assistito: preferiamo parlare di entrambe le fattispecie come di forme di morte medicalmente assistita, realizzate in diverse modalità.
Chiariamo inoltre che il Mpv riconosce la legittimità del rifiuto e rinuncia – intesi come non inizio e interruzione, rispettivamente – dei trattamenti sanitari, anche salvavita, e anche dei trattamenti di sostegno vitale, che vanno distinti da atti medici a finalità eutanasica, sempre inaccettabili a nostro avviso. La morte medicalmente assistita si può certamente realizzare mediante atti omissivi, cioè non somministrando sostegni vitali, su richiesta del paziente: la differenza con la legittima richiesta di non ricevere gli stessi trattamenti sta nell’intenzione del paziente, che può rifiutare le cure anche necessarie per vivere non perché vuole farsi uccidere, ma perché non riesce a tollerarle o perché vuol lasciare che la malattia faccia il suo corso. Analogamente, un medico potrebbe non voler trattare un paziente perché ritiene futili o gravosi alcuni trattamenti, pur sapendo che in quel modo la vita si abbrevia, ma non perché è lui a volerla accorciare.
La differenza fra rifiuto e rinuncia delle cure e chiedere di essere uccisi sta tutta all’interno di uno scarto insindacabile della coscienza, sia del paziente che del medico: uno scarto insindacabile che va rispettato. Per questo motivo è legittima la richiesta di non vedersi somministrare cure anche di sostegno vitale, da parte del paziente, ed è altrettanto legittimo il diniego del medico, qualora ritenesse tale decisione contraria alla propria deontologia professionale, in scienza e coscienza.
La questione si svolge tutta all’interno della relazione medico-paziente, che non può mai essere di natura contrattuale, ma fiduciaria: la libertà di cura, in questo caso, si concretizza nella libertà del malato di scegliere il proprio medico curante, il quale, condividendo le richieste del suo paziente, si adopera per metterle in atto. Un medico che deve sempre poter avere la libertà di curare, e non può essere obbligato a eseguire atti che gli ripugnano.
Aggiungiamo infine che a nostro avviso esistono ambiguità nella l.219, che può essere interpretata in senso “aperturista” rispetto a pratiche di morte medicalmente assistita, come mostra l’ordinanza della Corte di Assise di Milano che ha posto il quesito alla Consulta relativamente al “caso dj Fabo”, per esempio quando vi si legge che “Il diritto a morire, rifiutando i trattamenti sanitari, è stato di recente riconosciuto dal legislatore italiano con la legge n.219 del 22.12.2017”, e anche che “dai lavori preparatori della legge e dalle discussioni parlamentari emerge che il Parlamento era consapevole che il prevedere per il paziente la possibilità di rifiutare la nutrizione artificiale comportava di fatto riconoscere il suo diritto di scegliere di morire non già a causa della malattia, ma per la privazione di sostegni vitali (ovvero per una cosiddetta eutanasia indiretta omissiva). Nonostante ciò anche questa decisione, come tutte quelle in campo terapeutico, è stata prevista come insindacabile”.
La stessa Consulta, infine, quando indica di modificare la l.219 consentendo forme di morte medicalmente assistita, evidentemente ne ritiene l’impianto coerente con una apertura in tal senso.
Date tali osservazioni preliminari, la domanda che il Mpv pone è la seguente: la scelta di vivere e quella di morire possono essere considerate sullo stesso piano? Scegliere di vivere e scegliere di morire possono avere lo stesso valore? Le due scelte possono essere parimenti tutelate?
Il nostro ordinamento, fino all’entrata in vigore della l.219, è stato orientato esclusivamente al favor vitae: la scelta di morire è stata sempre considerata un disvalore.
Lo stesso articolo 580 del cp va in tal senso: l’eventuale sopravvissuto al tentativo di suicidio non viene sanzionato, mentre invece lo sono coloro che aiutano o istigano al suicidio. In altri termini, potremmo dire che una persona è libera di suicidarsi, ma non ne ha il diritto perché il suicidio è considerato un disvalore, tanto che si mettono in atto dei deterrenti sanzionando coloro che ne facilitano l’attuazione, o che istigano in tal senso. Si mette a punto cioè, come ha ricordato anche la Consulta, una sorta di “cintura protettiva” nei confronti dei potenziali suicidi, per tutelarli, scoraggiando eventuali spinte o aiuti.
Ma se la scelta di vivere ha lo stesso valore di quella di morire, mutano i criteri di valutazione del vivere comune e i paradigmi di riferimento della nostra società. Tutto cambia, a partire dall’idea della prevenzione del suicidio: se la morte medicalmente assistita viene considerata un’espressione della propria autonomia, per quale motivo la si dovrebbe prevenire? Non si dovrebbe, invece, assecondarla? Perché impedire a una persona di porre fine alla sua vita, se in questo modo compie la sua autodeterminazione, intesa come realizzazione di sé?
Se il bene giuridico da tutelare è la scelta in quanto tale, e quelle di vivere e di morire sono ritenute di pari valore, tutto cambia intorno a noi, perché tutto nel nostro sentire è basato sull’idea che sia meglio vivere piuttosto che morire.
Pensiamo ad esempio a forme di protesta come il digiuno. Lo sciopero della fame e della sete è tanto più efficace quanto più chi vi assiste ritiene che vivere sia preferibile al morire: le richieste di chi digiuna vengono prese sul serio, si aprono trattative proprio per scongiurare la morte degli scioperanti, considerata come una sciagura da evitare. Ricordiamo tutti gli appelli del Presidente Napolitano a Marco Pannella, la richiesta accorata di interrompere lo sciopero della fame, per evitare peggioramenti della salute non più recuperabili, mortali. Paradossalmente, se si rovesciasse il criterio del favor vitae, e se il bene da tutelare diventasse la scelta della persona, e non la sua vita, proteste come lo sciopero della fame perderebbero la loro efficacia: perché impedire a una persona di scegliere la morte come forma estrema di contestazione?
C’è anche un altro punto da tener presente quando si ammette la morte medicalmente assistita: condizione necessaria è che la persona che la richieda provi sofferenze intollerabili, tanto da preferire di morire. Ma chi può misurare la sofferenza di una persona? Non certo il legislatore. L’intollerabilità del dolore ha ovviamente un margine di soggettività che nessuno può valutare, a parte la persona che quel dolore vive. Non ci riferiamo tanto al dolore fisico, che sappiamo essere sempre gestibile mediante trattamenti farmacologici o chirurgici, riconducibili alle cure palliative o alla terapia del dolore così come previsti dalla legge 38/2010.
Parliamo piuttosto di dolore inteso come condizione di sofferenza e disagio estremi: quelle tribolazioni fisiche, emotive e psichiche che possono rendere il vivere intollerabile, anche quando il dolore fisico può essere gestito.
E se la sofferenza insopportabile è uno dei criteri di accesso alla morte medicalmente assistita, chi potrà mai distinguere i patimenti, e stabilire che il dolore, ad esempio, per la perdita di un figlio sia più sopportabile di quello della fase finale di una malattia incurabile?
Se si ammette che si può soffrire tanto da poter essere legittimamente aiutati a morire, perché escludere alcune condizioni rispetto ad altre? Se la morte si può considerare una liberazione da una situazione insostenibile, tanto che la scelta di morire può essere preferibile a quella di continuare a vivere, chi, se non la persona stessa, può stabilire la soglia del dolore oltre la quale è legittimo essere uccisi, su richiesta?
E’ questo il senso vero del “pendìo scivoloso” della morte medicalmente assistita, dal quale non si riesce a risalire, una volta imboccato: se si ammette che ci sono condizioni per cui la scelta di morire è plausibile, al pari di quella di vivere, condizioni definite da una sofferenza intollerabile, allora ogni limite potrà essere superato, in nome della soggettività della soglia del dolore tollerabile. Il legislatore è sconfitto in partenza.
Una conseguenza dell’ammettere la morte medicalmente assistita è l’indebolimento della cultura solidaristica della nostra società.
Se vediamo un uomo che sta per buttarsi da un ponte, istintivamente cerchiamo di fermarlo, di impedirgli di darsi la morte. Quando qualcuno manifesta l’intenzione di buttarsi dalla finestra, immediatamente si forma un capannello di persone, sotto, per cercare di salvarlo, anche tentando di afferrarlo dopo che si è lanciato, per evitare che muoia nell’impatto a terra. E se qualcuno riesce, scatta l’applauso collettivo, liberatorio.
Nessuno si fa domande sulla libera volontà dell’aspirante suicida, nessuno si preoccupa in quei momenti di verificare la sua lucidità mentale: tutti sono profondamente consapevoli che per quella persona sarebbe comunque meglio vivere, anche se non si conoscono le vicende che hanno portato a quel gesto.
Quando una persona vuole uccidersi, noi ci poniamo istintivamente nella posizione di
dissuaderli dalla decisione, e non per mero vitalismo, ma per la consapevolezza profonda, annidata nella nostra coscienza, che morire è un male a cui non c’è rimedio.
Ma se cambia il paradigma di riferimento, e cominciamo ad ammettere che scegliere di morire può essere un modo di realizzare se stessi, al pari di vivere, questa consapevolezza profonda, inevitabilmente, si assottiglierà, e allora ci fermeremo, anziché cercare di impedire la morte: perché non rispettare la scelta di ciascuno, qualunque essa sia? Se sono tutte parimenti legittime…
Ogni persona che chiede di morire può essere paragonata a quell’uomo che vuole buttarsi dal ponte: con l’assistenza medica la morte perde la sua drammaticità, diventa asettica e soprattutto indolore, non richiede neppure la forza d’animo che hanno i suicidi nell’attuare il loro proposito (perché ci vuole un gran coraggio per buttarsi da un ponte).
Cambia la cultura solidaristica, perché se la morte è un’opzione al pari della vita, quel che serve è solo il “consenso informato”: non più interventi dissuasivi, nel tentativo di trovare una soluzione alla drammaticità delle situazioni, soluzione che non può prescindere dalla condivisione della sofferenza e dal coinvolgimento nella relazione con chi soffre, ma informazione sulle diverse scelte possibili, tutte equivalenti tra loro.
E il confine fra la libera scelta e la decisione in solitudine svanisce.
Da ultimo, il ruolo delle istituzioni. Lo stato deve certo rispettare la volontà e la libertà del singolo. Ma qual è il confine, il limite che non può superare? Noi riteniamo che la realizzazione di sé, il proprio compimento, non possa coincidere con la propria autodistruzione.
In questo senso, se l’autodeterminazione viene intesa come espressione massima della realizzazione di sé e della propria libertà, darsi la morte, annientarsi, è l’esatto contrario dell’autodeterminazione.
(a cura di Assuntina Morresi)