L’embrione umano: un soggetto
Affermare che l’embrione umano è un soggetto “è condizione indispensabile perché cultura ed educazione non siano parole contraddittorie e sia destato il necessario slancio di solidarietà», ha scritto Carlo Casini nel 1996 spiegando perché è necessario pensare ad una riforma dell’art. 1 c.c che lo riconosca. Riproponiamo alcuni passaggi (senza note a piè di pagina) del suo scritto per spiegare il senso della proposta di legge di iniziativa popolare sul riconoscimento della capacità giuridica dell’embrione umano. La proposta fu presentata per la prima volta alla Camera dal Movimento per la Vita Italiano nel 1995, corredata da 197.277 sottoscrizioni (tra cui quelle di 400 docenti universitari e 16 rettori d’università), fatta propria anche dal Forum delle Associazioni Familiari con una petizione che raccolse 1.400.000 adesioni.
Da allora questa proposta di riforma dell’art. 1 cc. viene riproposta ad ogni legislatura.
Suggeriamo senz’altro la lettura del testo integrale (Carlo Casini, L’embrione umano: un soggetto. Verso una riforma dell’art. 1 c.c., Supplemento al numero di Sì alla Vita, ottobre 1996) che si può richiedere a: a.pessano@mpv.org.
di Redazione
Tanti anni di riflessione sul diritto alla vita mi hanno convinto che ogni discussione indurisce le posizioni opposte se prima non si accetta insieme di gettare sull’uomo uno “sguardo contemplativo”, così come chiede Giovanni Paolo II nell’enciclica “Evangelium vitae”. Un tale sguardo che si interroga sul mistero dell’uomo e sulla sua essenza deve considerare tutto l’uomo e quindi anche l’embrione. Da questo atteggiamento è nata la proposta popolare sul riconoscimento della capacità giuridica di ogni essere umano fin dal concepimento (NdR). […]. La proposta non vuole essere un gesto declamatorio o provocatorio. Vuole indicare una strada per uscire da sterili polemiche, vuole contribuire ad una ricomposizione morale e civile, esige di essere discussa in Parlamento […].
L’urgenza di uno statuto giuridico dell’embrione umano
[…]. Non è possibile giungere a soluzioni razionali se non si affronta la domanda fondamentale: chi o cosa è l’embrione umano? Tale quesito può essere eluso e di fatto non è stato affrontato nella sua profondità nelle discussioni sull’aborto, ma non può essere evitato quando diviene artificiale extracorporea e sulla ingegneria genetica applicata all’embrione umano. […].
Oggetti e soggetti: il principio di uguaglianza. Conseguenze
La proposta popolare […] pretende di avere una portata […] generale. Mi sforzerò di condurre il discorso sul filo della logica giuridica mostrando come essa è in grado di sciogliere anche i nodi filosofici.
Il diritto è eminentemente relazione fra soggetti: esso è “hominis ad hominem proportio” (Dante). “Iustitiae proprium est inter alias virtutes ut ordinet hominem in his quae sunt ad alterum” (S. Tommaso). La distinzione tra oggetti e soggetti è, perciò, la preliminare necessaria “summa divisio”, quale che sia la concezione della giuridicità accolta. Il modo in cui il diritto separa i soggetti dagli oggetti è l’attribuzione ai primi della capacità giuridica. Essa è l’attitudine ad essere termine di un rapporto che riguarda uno o più oggetti e che ha dall’altra parte uno o più soggetti (possono essere anche tutti i consociati: il proprietario ha un diritto a non essere molestato nella sua proprietà di un dato oggetto nei confronti di tutti gli altri). Per il diritto essere soggetto, essere persona, avere capacità giuridica sono espressioni sinonimiche. I giuristi conoscono bene la distinzione tra capacità giuridica (attitudine statica alla titolarità di situazioni giuridiche) e capacità di agire (attitudine dinamica a modificare la propria sfera giuridica); tra capacità generale e capacità parziale. La prima sussiste anche se ̶ al limite e astrattamente ̶ la titolarità attuale o potenziale riguarda un solo diritto, la seconda dipende da varie circostanze: il minore non ha la capacità giuridica riguardo ai diritti di elettorato attivo e passivo, ma non per questo è privo della capacità-personalità-soggettività generale.
La soggettività giuridica non è un “prius” rispetto alla titolarità di un diritto, ma un “posterius”, nel senso che, riconosciuto un diritto, non può escludersi la personalità di chi ne è titolare. Questo criterio è talmente forte che accanto alle persone fisiche (gli uomini) vi sono le persone giuridiche, enti creati dal diritto e non dalla natura come astratti centri unitari di riferimento di diritti. In base a questi richiami si potrebbe ritenere che l’esclusione della capacità giuridica del concepito stabilita dal primo comma dell’art. 1 c.c. vale nell’ambito del diritto privato, ma non in quello pubblico, particolarmente in quello costituzionale. Per questo appare contraddittoria la sentenza n. 27 del 18.2.75 con la quale la Corte costituzionale da un lato ha dichiarato che la tutela del concepito trova fondamento nell’art. 2 Cost. «che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali non può non collocarsi la situazione giuridica del concepito» (dunque il concepito è titolare del diritto alla vita e perciò giuridicamente “persona”), dall’altro ha affermato che egli «persona deve ancora diventare». Se la Corte ha usato il concetto di persona in senso filosofico o sociologico doveva spiegare che cosa intendeva, motivare la sua scelta e giustificare l’utilizzazione in sede giuridica di un concetto non giuridico. Se, viceversa, come sembra, il suo è stato soltanto un implicito richiamo all’art. 1 c.c. era impropria l’estensione di una definizione privatistica nell’ambito costituzionale.
La distinzione tra soggetti ed oggetti è importantissima per l’embrione umano, ma lo è anche per il diritto. […] Risuona ancora una volta la domanda di Sant’Agostino: «che cosa distingue lo Stato da un’associazione a delinquere ben organizzata?». Se il diritto fosse soltanto rapporto fra tra soggetti ed organizzazione di ente sociale non sapremmo come distinguere la società mafiosa dallo Stato. Perciò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo […] si apre con l’affermazione che «il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo consiste nel riconoscimento della dignità di tutti gli esseri appartenenti alla famiglia umana e dei loro uguali ed inalienabili diritti». È il principio di uguaglianza, basato sull’affermazione del valore altissimo dell’uomo (“dignità”), un valore che lo distingue da ogni altra parte del creato (trascendenza dell’uomo) e che è così alto da essere sempre uguale per tutti (nel senso che la dignità umana non è graduabile). Questo principio, recepito in tutte le Costituzioni moderne, esprime l’idea che l’uomo è sempre fine e mai mezzo, sempre soggetto e mai oggetto, sempre persona e mai cosa. Come scrive la Corte costituzionale tedesca […] proprio in tema di aborto «questa scelta fondamentale della Costituzione determina la struttura e l’interpretazione dell’intero ordinamento giuridico». A me pare, dunque, che il rigoroso e coerente riconoscimento della dignità di ogni essere umano sia, appunto, ciò che distingue l’ordinamento statale da una “associazione a delinquere ben organizzata”, il punto di saldatura tra la sfera dell’etica e quella del diritto, ciò che esclude la riduzione della legge alla semplice forza e la collega all’idea di giustizia.
Ne discendono alcune conseguenze.
In primo luogo la capacità giuridica può essere estesa ad entità diverse dall’individuo umano (persone giuridiche), ma non può mai essere negata all’uomo. […]. È questa una acquisizione conquistata nel corso di un faticoso cammino storico, destinato a concludersi, secondo me, proprio nel nostro tempo, in particolare con la proposta modifica dell’art. 1 c.c.. Nell’antico diritto lo schiavo, pur essendo riconosciuto uomo, era considerato una cosa, oggetto di proprietà, di cattura come gli animali, in libera disponibilità del padrone. La sua uccisione ad opera di un terzo era danneggiamento, non omicidio. Né così disumane considerazioni sono lontane dal nostro tempo. Vultejus (1565-1634), il primo giurista moderno che usa la parola “persona” in senso tecnico, può scrivere «servus enim homo est, non persona. Homo naturae, persona iuris civilis, vocabulum». Più recentemente, nel 1857, la Corte suprema statunitense ha pronunciato una sentenza che ancora oggi suscita scandalo perché vi si legge, per giustificare la schiavitù, che «i neri, a norma delle leggi civili, non sono persone». Di analoghe discriminazioni sono stati vittime in passato gli stranieri e le donne e sarebbe facile ricordare le molte forme di razzismo moderno. Ciò deriva dal considerare condizione della qualità di soggetto l’appartenenza a un gruppo o ad una razza o ad una particolare categoria di uomini. In passato era possibile anche la privazione della capacità giuridica come pena per determinati delitti o per ragioni politiche, ma oggi è inaccettabile e da noi è anche costituzionalmente vietato. Infatti l’art. 22 Cost. sancisce che «nessuno può essere privato della capacità giuridica». Ė vero che tale norma limita il divieto ai motivi politici, ma alcuni commentatori sottolineano che, in raccordo con gli artt. 2 e 3, il senso della norma è che «ogni uomo è soggetto di diritto» e che tale soggettività non può essere disconosciuta neppure per motivi politici. Non sembra quindi accettabile l’accusa di “specismo” contro chi collega il valore dell’individuo all’appartenenza alla specie umana, perché proprio questo è l’esito di una gloriosa lotta storica che ha liberato in nome della dignità umana e dell’uguaglianza schiavi, stranieri, donne, “diversi” per condizioni razziali o di qualsiasi genere.
La seconda conseguenza è che la definizione di uomo-soggetto per ragioni giuridiche non spetta al legislatore. Se, infatti, il principio fondamentale è quello dell’uguaglianza esso resterebbe vanificato se fosse poi consentito al potere civile stabilire quali sono i soggetti uguali. […]. L’uomo non può essere “deciso” dal diritto. Il diritto può e deve solo “riconoscerlo” come soggetto. In caso contrario tutta la teoria dei diritti umani si rivelerebbe illusoria.
A questo punto irrompono nel filo del ragionamento le teorie filosofiche sullo statuto ontologico dell’embrione umano. Ma anche su questo il diritto ha da dire la sua parola. È la terza conseguenza delle premesse. In base al principio di uguaglianza non possono essere accolte le teorie che hanno un significato discriminatorio sull’uomo, in altri termini quei criteri di umanità che, applicati all’uomo anche nella fase post-natale, implicano una inaccettabile discriminazione. Tali sono i criteri dell’auto-coscienza, della capacità di relazione, dell’accettazione sociale. Il riferimento alle sole caratteristiche biologiche della specie umana («l’uomo è l’individuo vivente appartenente alla specie umana») è anch’esso una scelta filosofica, ma è l’unica che esclude ogni discriminazione e, dunque, l’unica coerente con il principio di uguaglianza».
La quarta ed ultima conseguenza è che nel dubbio la logica giuridica deve scegliere la soluzione che riconosce il soggetto e non quella che lo nega. Per molti versi anche questo corollario si collega al principio di uguaglianza. Quando vi è un disperso in mare a seguito di un naufragio le ricerche continuano ̶ per quanto dispendiose e talora anche penose e pericolose ̶ finché residua un ragionevole dubbio sulla vita del naufrago. L’istituto della morte presunta mostra quante rigorose cautele debbono essere adottate prima di considerare cessato un soggetto. Finché permane un dubbio, sia pur flebilissimo, sulla sua vita, egli è considerato esistente. Se ciò vale per la fine della soggettività giuridica, perché non dovrebbe valere per l’inizio? Le incertezze che dovessero permanere al termine delle più approfondite discussioni sull’identità umana del concepito e sull’inizio di essa dovrebbero essere risolte dal diritto, che è uno strumento pratico, una “guida all’azione”, nel senso della estensione delle garanzie per il soggetto. Ciò si ricava anche dall’art. 30 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che non consente in materia interpretazioni che possano condurre, di fatto, a negarli. Insomma tra le due possibili interpretazioni va preferita quella che afferma il diritto fondamentale piuttosto di quella che lo nega. Non avrebbe senso appellarsi al pluralismo culturale. Il diritto non può affidare alla coscienza individuale e alle opinioni dei singoli il riconoscimento dei soggetti senza negare se stesso ed il principio di uguaglianza. Come nelle ricerche del naufrago non conta ciò che il singolo può pensare, come nella morte presunta non basta che i congiunti siano già convinti della fine del loro congiunto.
Materiali ricostruttivi nella giurisprudenza costituzionale e ordinaria
L’affermazione della capacità-soggettività-personalità giuridica di ogni essere umano fin dal concepimento appare dunque un risultato di grande respiro storico. È evidente, tuttavia, che l’aspetto pratico sarebbe il riconoscimento dell’embrione umano come titolare di diritti. Si tratta, ovviamente, di diritti “embrionali” cioè di un nucleo limitato, ma essenziale che il Parlamento europeo nella sua risoluzione del 16.3.1989 sui problemi etici e giuridici della procreazione artificiale umana ha definito come: diritto alla vita, diritto alla famiglia, diritto all’integrità psicofisica, diritto all’identità genetica. Peraltro il comma 2 dell’art. 1 c.c. si riferisce ad altri diritti nel campo delle successioni e delle donazioni, cioè ad un ambito patrimoniale di diritti reali e obbligatori, la cui titolarità è subordinata all’evento della nascita: una formula che moltiplica le ricostruzioni dogmatiche ponendo problemi che qui non è il caso di affrontare. Interessa dimostrare, invece, che il raccoglimento della riforma proposta darebbe sfogo ad una serie di inquietudini, di incertezze e di indicazioni che vengono dalla giurisprudenza costituzionale europea e da talune sentenze ordinarie italiane. La prima è maturata proprio in tema di aborto. Delle ambiguità della Corte costituzionale italiana, sottolineate più volte di recente anche da un suo ex Presidente, il Prof. Baldassarre, ho già detto. Al concepito è riconosciuto il diritto alla vita ma la sua “situazione giuridica” resta imprecisata ed è dunque meritevole di chiarimento. […].
Come si vede questi indirizzi giurisprudenziali, pur prudenti di fronte all’attuale art. 1 c.c., aprono la strada verso un pieno riconoscimento della soggettività dell’embrione, ciò che, d’altronde, servirebbe a semplificare alcuni intricati problemi interpretativi.
Le indicazioni del Comitato Nazionale per la Bioetica
Un significativo sostegno alla proposta popolare è giunto, quasi un anno dopo la sua presentazione al Parlamento, (20/7/96) dal Comitato nazionale di bioetica, più precisamente dal suo documento “Identità e statuto dell’embrione umano”, adottato il 28/6/96 e reso pubblico il 12/7/96, che tanta attenzione ha già avuto dai mass media. Quel testo prende le mosse proprio da quella che ho chiamato “domanda fondamentale” che viene ripetuta insistentemente con successive integrazioni: “l’embrione umano è un individuo umano?”. Più precisamente: “l’embrione umano è un individuo umano a pieno titolo?”. Più precisamente ancora: “l’embrione umano è o non è un individuo umano dotato di natura umana?”. Il Comitato ha anche applicato il criterio di non discriminazione per risolvere vari problemi. Quel che particolarmente interessa ai fini di questo saggio è l’esplicita affermazione che “il Comitato non ha ritenuto… che rientrasse nei suoi compiti approfondire le questioni giuridiche connesse alla tutela dell’embrione, dando per scontato che le conclusioni da esso raggiunte (di natura specificamente etica) debbano ricevere un’ulteriore specifica elaborazione per tradursi in concrete indicazioni di normativa legale”. Dunque il Comitato nazionale di bioetica ha inteso soltanto porre le premesse ontologiche ed etiche e ha invitato giuristi e legislatori a trarne le conseguenze. La proposta popolare, sebbene presentata un anno prima del parere adottato dal Comitato, rappresenta la prima e più importante applicazione sul piano giuridico delle premesse contenute nel documento del 22/6/96.Infatti non solo il Comitato nazionale ha scelto il metodo di partire dalla “domanda fondamentale” e dal principio di non discriminazione, ma, pur rifiutando di impegnarsi a fondo sul concetto filosofico di “persona”, ha affermato all’unanimità:
1) l’embrione “non è una cosa”. “Nessuna proposta ontologica colloca l’embrione sul piano delle cose, dal momento che la sua stessa natura materiale e biologica lo colloca tra gli esseri appartenenti alla specie umana”. Dunque, sul piano giuridico, se non è una cosa, l’embrione non può essere che un soggetto;
2) Tra la tesi che la persona (in senso filosofico) è definita dalla natura “ontologica”, sicché un individuo concreto può essere di natura razionale (umana) anche quando non manifesta tutte le note caratteristiche della razionalità e la tesi opposta per la quale la persona è un insieme di funzioni attualmente esercitate, non può essere accolta la seconda “perché reintroduce, di fatto, surrettiziamente, la legittimità di una discriminazione tra gli esseri umani sulla base del possesso di certe capacità o funzioni”. La conseguenza è tratta dallo stesso Comitato: “il semplice possesso della natura umana implica per ogni individuo umano il fatto di essere persona”;
3) “Non si può non sentire che l’embrione è un nostro simile”. Dunque se è uno di noi deve avere il nostro stesso valore.
4) Anche coloro che esitano a riconoscere l’identità personale dell’embrione fin dalla fecondazione affermano “il dovere di trattare l’embrione come dotato di identità personale fin dalla fecondazione” e “riconoscono che l’embrione ha il diritto di essere trattato come una persona, ossia nel modo secondo cui conveniamo debbano essere trattati gli individui della nostra specie sulla cui natura di persone non vi sono dubbi”. Una tale conclusione è ben insistita. Si legge infatti nelle conclusioni: «Il Comitato è pervenuto unanimemente a riconoscere il dovere morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone».
È dunque evidente che il diritto, attraverso cui si manifesta concretamente il trattamento riservato agli esseri umani e si realizzano il rispetto e la tutela ad essi spettanti, deve, in primo luogo, riconoscere la soggettività giuridica fin dalla fecondazione.
Ciò è quanto, appunto, domanda la proposta popolare.
Diritti patrimoniali e personali. Ragione dell’attuale formulazione dell’art. 1 c.c.
Non è questa la sede per esaminare le questioni civilistiche legate alla attuale formulazione dell’art. 1 c.c. 2 cpv. Quando esso è stato scritto l’orizzonte del legislatore era esclusivamente commerciale ed è logico che in questa prospettiva una esigenza di certezza imponesse il riferimento alla nascita. I commentatori tendono ad escludere la capacità giuridica prima del parto, anche se si parla di “diritti attribuiti al concepito”, argomentando, tra l’altro, che donazioni inter vivos e mortis causa sono possibili in favore anche del figlio non concepito al tempo dell’apertura della successione. Ma bisognerebbe spiegare perché la successione legittima e legittimaria è possibile solo in favore del concepito. Sembra che la sua esistenza in rerum natura, a differenza del non concepito, sposti la preoccupazione del legislatore. Riguardo al non concepito si tratta di espandere al massimo l’autonomia dispositiva del testatore e del donante (è dunque l’interesse dell’adulto che viene tutelato), mentre l’inclusione dei concepiti nella categoria degli eredi legittimi e necessari tutela in primo luogo gli interessi degli stessi concepiti. Ma non intendo sviluppare questo spunto. Giustifico, invece, la proposta popolare che oltre al primo comma dell’art. 1 ne modifica anche il 2 comma aggiungendovi la parola “patrimoniali” (il testo diviene: “i diritti patrimoniali che la legge attribuisce al concepito sono subordinati all’evento della nascita”). In realtà i proponenti hanno inteso lasciare le cose immutate proprio in riferimento al regime successorio, dove il problema di stabilire il momento esatto della morte è centrale e diviene assai difficile se riguarda un concepito non ancora nato di cui si aprisse la successione. È questa la ragione di carattere “commerciale” cui prima alludevo, che forse sta alla base dell’attuale art. 1. Sebbene ulteriori studi possano approfondire la materia sembra giusto non toccare l’aspetto meno importante dell’art. 1. Il risultato si ottiene subordinando alla condizione della nascita i soli diritti patrimoniali acquisiti per successione o donazione dal concepito.
Tutela di soggetti e tutela di oggetti. Tutela sociale, morale, giuridica
Il riconoscimento della capacità (= personalità, soggettività) al concepito rende preciso il dovere di tutela della vita umana fin dal suo inizio, ripetutamente affermato e sancito anche nell’art. 1 della legge 22.5.78 n. 194. Anche gli oggetti, infatti, possono essere meritevoli di tutela. Anche un’opera d’arte deve essere protetta e così pure una fabbrica o un bosco. Ma non si potrà mai dire che i quadri custoditi al Louvre o il parco nazionale d’Abruzzo hanno dei diritti. In definitiva il loro valore e quindi la loro tutela è in funzione dell’uomo. La protezione è, perciò, strumentale ad altri fini. Ma la dignità umana significa che l’essere umano è sempre fine e merita perciò protezione “per sé stesso”, con l’unico limite della uguale protezione spettante agli altri esseri umani.
Dire che la capacità giuridica spetta ad ogni essere umano fin dal concepimento significa affermare che la vita dell’embrione deve essere protetta perché egli, in quanto tale, ha il primario diritto di vivere e non perché la sua vita serve a qualcuno e dunque merita protezione nella misura in cui è utile a questo scopo. La vita concepita può essere tutelata in vista della lotta contro il crollo demografico oppure per ragioni di potenza razziale e militare. Anche in rapporto al benessere della madre essa può essere riflessamente protetta, sia quando la donna desidera il figlio, sia quando i filtri procedurali che precedono l’IVG (colloquio, consultorio, attesa) sono intesi come strumenti di maturazione della decisione femminile, che, se presa affrettatamente, potrebbe in seguito essere motivo di rammarico e sofferenza per la donna stessa. Il diritto che riconosce il concepito come soggetto non solo rende certo il dies a quo della tutela, ma indica il carattere autonomo di essa.
Tale riconoscimento è anche la condizione della giuridicità della tutela. Un bene, un valore possono essere protetti in sede etica con strumenti morali (a ciò si allude, in certo modo, quando si dice che l’aborto è “un problema di coscienza”, a meno che non si intenda la coscienza come “opinione individuale”), in sede sociale con provvidenze socioeconomiche (educazione, aiuti alle famiglie e alle gestanti).
Ma la tutela giuridica si manifesta in primo luogo con la precisazione dei diritti e dei doveri e ciò comporta la identificazione dei soggetti che ne sono titolari.
Capacità giuridica del concepito, disciplina della procreazione artificiale e dell’Ivg
[…] Se ho segnalato le notevoli differenze tra le questioni aperte dall’aborto e quelle collegate con la procreatica, tuttavia non mi nascondo le possibili conseguenze della auspicabile modifica dell’art. 1 c.c. sulla pratica e sulla disciplina della IVG. Molti, che pur sostengono la immodificabilità della legge, riconoscono che vi è stata una cattiva gestione e che dunque essa va corretta. Ma in quale direzione? Non vi sarà alcun cambiamento razionale se non si indicano con chiarezza i beni che si intende proteggere. Vogliono infatti il “miglioramento” sia quanti pensano che vi sono ancora troppi impacci per la libertà della donna, sia quelli che trovano inconsistente o troppo fragile la difesa della vita nascente. Il dialogo non è possibile se non si ammette che nell’aborto i soggetti sono due e non uno solo. Il primo è la madre e nessuno ne dubita, il secondo è il concepito, cui deve essere restituita visibilità sul piano culturale e sul piano giuridico. Almeno chi sostiene che la L. 194 intende proteggere anche la vita dei concepiti non dovrebbe opporsi alla proposta popolare qui illustrata, per il rimbalzo educativo che determinerebbe. La trincea a difesa della L.194 dovrebbe essere collocata dopo la regola che elimina le residue limitazioni al principio di uguaglianza, non prima. Chi afferma la compatibilità tra aborto legale e riconoscimento del diritto alla vita, avrebbe tempo e spazio per dimostrare la giustizia della legge e la sua non contraddizione con l’uguale dignità di ogni essere umano. Checché si pensi della legge, nessuno può negare che un importante elemento di prevenzione va individuato nella cultura, nella educazione, nell’impegno corale della intera società per stringersi in solidarietà attorno alle maternità difficili o non desiderate. Il riconoscimento del concepito come soggetto è condizione indispensabile perché cultura ed educazione non siano parole contraddittorie e sia destato il necessario slancio di solidarietà. […].
È auspicabile, poi, che la riforma dell’art. 1 c.c. abbia effetti anche sulla giurisprudenza costituzionale italiana inducendo tutti gli opportuni chiarimenti sul concetto di “persona” che la Corte nella decisione n° 27/75 ha usato senza motivazione e con probabile riferimento all’art. 1 c.c.
Ci sarebbe poi, a mio giudizio, un importantissimo effetto chiarificatore riguardo ad una incipiente giurisprudenza di merito che impone alle strutture sanitarie e/o ai medici l’obbligo di risarcimento del danno in caso di nascita di un bambino nonostante l’esecuzione di un tentativo di aborto oppure di nascita di un bambino con qualche malformazione che avrebbe indotto la madre all’IVG, se il sanitario l’avesse scoperta e/o rivelata durante la gravidanza. […]Senza entrare nei dettagli sottolineo la portata eversiva di tale giurisprudenza che: a) consacra l’aborto come diritto, in contrasto con ripetute contrarie affermazioni dei difensori della legge 194; b) considera l’esistenza di un uomo un evento dannoso mettendo così in forse l’intero assetto sociale moderno fondato sulla dignità di ogni essere umano, fine e senso dell’intera società civile, dell’ordinamento e dello Stato; c) consente sviluppi ancora più conturbanti come l’azione per danni del figlio verso i genitori per il fatto di non essere stato abortito quando egli avverte l’esistenza come infelicità (malformazioni ed altro); d) ha una potenziale efficacia di incentivazione dell’aborto essendo immaginabile che medici, strutture sanitarie, istituti assicurativi, di fronte alla eventualità di vedersi imporre il risarcimento del danno, preferiscano adottare linee “prudenziali” consigliando l’aborto anche in casi con scarsissime possibilità di malformazioni del concepito. Si verifica così una perversa deriva: dall’aborto come esito di una dolorosa “necessità” si passa all’aborto-diritto ed infine all’aborto-dovere.
Per quanto criticabile, la decisione 27/75 della Corte costituzionale intendeva soltanto escludere la punibilità dell’aborto in determinati casi utilizzando la categoria ben nota dello “stato di necessità”. Previsto in via generale sia in sede penale (art. 54 c.p.), sia in sede civile (art. 2045 c.c.) esso esclude la sanzione e forse l’antigiuridicità del comportamento necessitato, ma questo non costituisce mai oggetto di un diritto verso terzi. Nella relazione tra l’autore del comportamento necessitato e chi lo subisce il danno giuridico è del secondo, tanto che l’art. 2045 c.c. prevede che il giudice possa obbligare il primo a corrispondergli una indennità: qualcosa di rovesciato, dunque, rispetto alla pretesa di risarcimento di chi non ha potuto tenere un dato comportamento “necessitato”. L’alpinista che taglia la corda facendo precipitare il compagno per non cadere lui stesso non è punibile, ma non potrà certo chiedere il risarcimento per le lesioni riportate nella caduta (o i suoi eredi non potranno chiederlo in caso di sua morte) al terzo compagno che invitato dal capo cordata a tagliare la corda facendo precipitare uno dei tre non è riuscito a farlo! Sembra evidente che l’obbligo di risarcimento per l’aborto non riuscito o travalica completamente lo “stato di necessità” o si collega all’idea che nell’aborto il soggetto sia uno solo, non vi sia, cioè, un secondo compagno di cordata.
Mi pare che la modifica dell’art. 1 c.c. dovrebbe fermare questa deriva, prima culturale che giuridica.
Valore dell’uomo: ragione di dialogo
Qualcuno ritiene che la proposta popolare introduca nuovamente il metodo del “muro contro muro”. Non è così. Discutere sul valore dell’uomo è un ponte tra credenti e non credenti. Attraverso di esso passa il dialogo. Interessa anche ai laici l’uomo, anzi è la loro divisa anche se pensano di poter fare a meno di Dio. Dunque il problema della soggettività dell’uomo deve essere affrontato insieme. Se vogliamo veramente il dialogo la domanda fondamentale non può essere elusa. Se invece la evitiamo il discorso sulla vita diviene moralistico ed è incomprensibile a molti.
Con qualche azzardo a me pare davvero che oggi il problema decisivo della convivenza civile sia quello di “provare l’esistenza dell’uomo”. Intendo dire l’uomo nel suo mistero (“dignità”) di trascendenza rispetto al resto del creato. Un tempo il problema era “provare l’esistenza di Dio”. L’uomo moderno ha considerato irrilevante tale questione per la vita su questa terra (“etsi Deus non esset“…). Ma non può fare a meno dell’uomo. Altrimenti la società diviene una giungla. Che poi vi sia una relazione tra l’esistenza di Dio e l’esistenza dell’uomo (nel senso ora indicato) è altra questione. Sta di fatto che l’esperienza storica dimostra l’impossibilità di costruire libertà, giustizia e pace senza riconoscere l’uomo. Lo dice la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie”. Proprio nel nostro tempo abbiamo constatato il fallimento di tutte le speranze civili fondate sulla trascendenza di entità collettive come la classe, la razza, la nazione, che, in definitiva, avevano cercato di determinare coesione sociale superando la logica della giungla dove ciascuno vive solo per sé stesso. Ma oggi quest’ultimo pericolo non è venuto meno. È dunque necessario provare l’esistenza dell’uomo. Mi pare che non sia banale ripetere con linguaggio giuridico che tutti gli uomini sono sempre uguali nel loro misterioso valore e che non si può dare nessun essere appartenente alla specie biologica umana che non sia per ciò stesso un uomo e perciò un soggetto, una entità sottratta al regno delle cose. Del resto (genetica, aborto, etc…) parleremo dopo. Ma intanto come non convenire o almeno confrontarsi su questo punto?