Stepchild adoption e maternità surrogata: considerazioni a margine dell’ordinanza della Corte di Appello di Trento

L’alta sartorialità ermeneutica della Corte trentina e le nuove vesti di legittimità giuridica della maternità surrogata in Italia

Siamo un popolo di creativi! Irriducibilmente, incontenibilmente, inesorabilmente creativi! È un dato noto a tutti i popoli, indiscusso motivo di sano orgoglio patriottico: creatività nella moda, nella cucina, nel mondo dell’automobilismo, del motociclismo e dell’arredo, nello stile in genere. Ma possiamo vantare anche altri primati, quanto alla genialità creativa tutta italiana: penso, da un lato, alla creatività, scomposta, in materia legislativa, che ha finito col creare quell’assurda situazione di ipertrofia normativa tristemente famosa nel mondo anch’essa e, dall’altro, alla creatività dei nostri organi giudiziari, che sempre più spesso, forse dimentichi del fatto di essere chiamati ad agire all’interno di una cornice ordinamentale di civil law puro, offrono interessanti saggi dell’italico genio creativo finendo col disciplinare, per via di sentenze, o di ordinanze finanche, come nel caso in discussione, ambiti che il legislatore potrebbe aver deliberatamente scelto di non normare affatto (è il caso della stepchild adoption, la cui regolamentazione ha recentissimamente costituito oggetto di uno stralcio parlamentare esplicito dal testo del disegno di legge in materia di “unioni civili”), o, al contrario, di normare imperativamente per mezzo di precetti presidiati da sanzioni penali, i quali tuttavia, nel magmatico fluire di un’inventiva di cui sempre più spesso fanno opinabile sfoggio performativo i giudici italiani, vengono artisticamente trasformati in soluzioni normative poco più che opzionali (è il caso del divieto espresso di ricorrere alle tecniche di maternità surrogata contemplato nell’articolo 12 della Legge 40/2004, divieto penale, edittalmente assistito dalla previsione di sanzioni pecuniarie e carcerarie).

Il caso della Corte di Appello di Trento che, il 23 febbraio scorso, con un’ordinanza ha riconosciuto validità giuridica, e dunque efficacia ordinamentale, agli atti di nascita di due minori venuti alla luce all’estero per mezzo del ricorso alla suddetta tecnica di surrogazione, ordinanza emessa in accoglimento del ricorso presentato da due uomini conviventi, uno dei quali genitore genetico di entrambi i minori, avverso il rifiuto, opposto dall’Ufficiale di Stato Civile del luogo dove i due aspiravano a risiedere stabilmente, di procedere alla trascrizione dei medesimi atti nei Registri dello Stato Civile perché presuntivamente contrari all’ordine pubblico. Secondo i ricorrenti, infatti, la sentenza della Corte di giustizia straniera, competente per il luogo nel quale i due minori erano venuti al mondo, aveva costitutivamente “instaurato” –così si legge nella premessa al provvedimento giudiziale– una relazione di genitorialità in forza della quale anche il compagno del padre genetico dei minori doveva essere riconosciuto ad ogni effetto legale quale loro co-genitore, al pari cioè di quello biologico. Si faceva pertanto ingiunzione, all’interno del medesimo dispositivo, all’addetto italiano, di procedere all’aggiunta del nome del co-padre nei Registri dello Stato Civile, in quanto genitore a pieno titolo insieme a quello naturale.

La questione che si poneva ai giudici di Trento, dunque, veniva a riguardare essenzialmente la valutazione, rispetto al principio cardine dell’agire conforme all’ordine pubblico interno ed internazionale, della possibilità di rendere efficace nel nostro ordinamento un atto che riconosceva la potestà genitoriale anche al genitore non biologico. E qui ha inizio il magnifico ed artistico intarsio di argomentazioni giuridiche che la Corte di Appello di Trento ritaglia, con maniacale e ricercata acribia, da una pronuncia, solo un po’ anteriore, della Suprema Corte di Cassazione, che nella Sentenza n. 19599/2016 aveva ampiamente discusso e deliberato su un caso simile. Ma l’abilità nel taglio sempre domanda di essere altresì versati in un’arte ulteriore, quella del cucito! Così, mostrando un insolito talento nell’una come nell’altra, i giudici trentini giungono alla stesura, per mezzo dell’ausilio di nuclei argomentativi tratti proprio dalla sentenza della Suprema Corte citata innanzi, di un’ordinanza la cui trama, per la verità, è apparsa da subito un po’ ardita, data la tessitura inorganica delle sue maglie concettuali, il taglio frettoloso ed impreciso dei fili del suo discorso, la composizione precaria e incerta del suo ordito argomentativo. Ma andiamo con ordine, risalendo nodo per nodo, ai tre principali gangli argomentativi cui la Corte ha fatto ricorso per giustificare: 1) la non violazione dell’ordine pubblico nel riconoscere efficacia, nell’ordinamento italiano, ai certificati di nascita esteri dei due minori; 2) l’obbligo di procedere al riconoscimento della genitorialità legale dell’uomo non legato biologicamente agli stessi; 3) l’irrilevanza di tutti i divieti che ad oggi “bandiscono”, letteralmente, nell’ordinamento interno e internazionale, la maternità surrogata, tecnica per mezzo della quale gli stessi minori sono venuti al mondo.

Si legge nell’ordinanza che, ai fini di un’esatta definizione della nozione di ordine pubblico, fa d’uopo far riferimento alla sentenza già citata della Suprema Corte, che, chiamata a pronunciarsi su un caso simile, così si esprimeva: «Il contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituto (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario […]. Il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. […] Il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo» (Sentenza Cass. n. 19599/2016, punto 7). A questo punto, entra in gioco il principio dell’interesse superiore del minore, che, secondo i giudici trentini, diviene il vero argomento dirimente, precisando che si tratterebbe di un interesse «complesso e articolato in diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale sia in quello interno» (Sentenza Cass. n. 19599/2016, punto 8). Tale principio, nella fattispecie in esame, verrebbe poi in rilievo in una sua specifica e peculiarissma declinazione, vale a dire in quella specifica esigenza che ha a che fare con la tutela della “continuità dello status di figlio”, ovvero con la necessità di garantire che sia preservato il rapporto, anche legale, di filiazione con i genitori o presunti tali, venendo all’uopo in rilievo diversi documenti internazionali, tra i quali la Convezione sui diritti del fanciullo del 1989, la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000. Insomma, secondo i giudici, il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione anche con il genitore non biologico, determinerebbe un’incertezza giuridica che influirebbe negativamente sull’identità personale e giuridica dei minori (ad esempio sul loro diritto ad acquistare la cittadinanza italiana, ad ereditare, o a circolare liberamente nel nostro Paese).  

A questo punto dell’ordinanza si interrompe la citazione testuale che i giudici trentini fanno del testo della sentenza della Suprema Corte, mostrando, in questo modo, una straordinaria abilità sofistica nel piegare un discorso, assolutamente più ampio, articolato e organico, ad esigenze elenctiche e puramente contigenti. La Suprema Corte, infatti, nel tentativo di offrire una panoramica veramente completa ed esauriente delle implicazioni legate al principio dell’interesse superiore del minore, continua chiarendo come «il principio dell’interesse del minore “da solo non può essere decisivo” (in tal senso, Corte Edu, 3 ottobre 2014, Jeunesse c. Olanda, P. 109): altrimenti, tale diritto diventerebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente garantite alla persona, che costituiscono nel loro insieme la tutela della sua dignità; infatti, tutti i diritti costituzionalmente protetti si trovano in rapporto di integrazione reciproca e sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco (Corte cost. n. 85 del 2013, n. 10 del 2015, n. 63 del 2016)». E più avanti: «La dottrina ha opportunamente evidenziato come il principio dell’interesse del minore, anche se preminente, debba essere bilanciato con altri valori e principi, di pari rango, che –nella fattispecie– i ricorrenti hanno indicato: nelle regole inderogabili stabilite dalla L. n. 40 del 2004, in tema di procreazione medicalmente assistita. […] Se tali principi avessero davvero una rilevanza costituzionale primaria e, quindi, fossero vincolanti per lo stesso legislatore ordinario, allora si dovrebbe ammettere il contrasto con l’ordine pubblico dell’atto straniero di nascita» (Sentenza Cass. n. 19599/2016, punto 9).

Il punto è esattamente questo. Una pratica come quella della maternità surrogata – che attenta chiarissimamente ai diritti fondamentali tanto della madre gestante, costretta e mercificare il suo corpo, normalmente in cambio di un’utilità, di qualsiasi genere essa sia, quanto del figlio che ella dà alla luce, costretto alla nascita ad essere separato dalla sua madre biologica per essere, come nel caso di specie, assicurato alle cure di una coppia che giammai potrà soddisfare il suo naturalissimo, umanissimo e normalissimo desiderio ad avere una madre appunto– come non può definirsi in contrasto con i principi cardine del nostro ordinamento, penso in particolare al principio che riconosce la dignità personale di ogni essere umano e, dunque, como può non essere in contrasto con l’ordine pubblico? O forse il fatto che il ricorso a tale pratica di surrogazione sia avvenuto all’estero –e non poteva essere diversamente visto il divieto penale vigente in Italia rispetto a tale pratica– può valere a giustificare il suo avallo legale nel nostro ordinamento giuridico? O, ancora, un risultato –in questa caso la nascita di un figlio– comunque ottenuto, purché conseguito, vale a suffragare sempre la moralità dei mezzi prescelti per lucrarlo? Sì, perché pare sia stata esattamente questa la logica, tristemente ed insopportabilmente machiavellica, cinicamente seguita dai giudici trentini. A ben vedere, infatti, i due uomini che pretendevano di essere riconosciuti quali genitori dei minori, avrebbero tranquillamente potuto rivolgersi ad una delle tantissime donne che nei Paesi più poveri dell’Asia vivono letteralmente segregate in baby farm come in autentiche batterie di incubatrici umane, senza che questo valesse ad alterare minimamente il sereno lavoro di ricamo degli stessi giudici, che con asettico disincanto hanno anzi fieramente sottolineato la “perfetta indifferenza della tecnica di procreazione prescelta”! Dunque, se ai loro occhi la tecnica di procreazione è “indifferente”, ciò significa che nessun tipo di sindacato di legittimità è stato fatto su di essa all’atto di stilare l’ordinanza; detto altrimenti, il rilievo circa la presunta “democraticità” degli ordinamenti in cui la maternità surrogata è legalmente disciplinata, semplicemente non è stato oggetto di esame da parte del collegio giudicante. Ecco perché sarebbe stato esattamente lo stesso, agli occhi “indifferenti” di quanti lo componevano, se i due uomini avessero scelto quale luogo di realizzazione del loro desiderio procreativo la “democrazia” birmana, o vietnamita, o russa, per citarne qualcuna. Il punto è questo, ribadiamo, nessun altro!

Eppure nel caso specifico deciso nella sentenza della Suprema Corte –che, ripetiamo, i giudici trentini hanno strumentalmente utilizzato per costruire le loro artefatte e carenti argomentazioni– il contrasto con l’ordine pubblico era stato espressamente escluso solo perché la nascita del minore, il riconoscimento del cui certificato era in discussione, non era avvenuta per mezzo del ricorso alla maternità surrogata, essendo le ricorrenti due donne, e non perché la medesima tecnica fosse stata giudicata, da qualche parte nella sentenza, dai giudici supremi in armonia con il nostro ordinamento. Così si esprimeva, anzi, la Corte Suprema: «Per surrogazione di maternità o maternità surrogata (o gestazione per altri) si intende la pratica con la quale una donna assume l’obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro: in tal caso, una donna utilizza il corpo di un’altra donna che presta il proprio al solo fine di aiutarla a realizzare il suo esclusivo desiderio di avere un figlio. Nel caso in esame, invece una donna (la M.) ha partorito un bambino (anche) per sè, sulla base di un progetto di vita della coppia costituita con la sua partner femminile (la B.): quest’ultima non si è limitata a dare il consenso all’inseminazione da parte di un donatore di gamete maschile (evidentemente esterno alla coppia), ma ha donato l’ovulo che è servito per la fecondazione ed ha consentito la nascita di T. (partorito dalla M.), frutto dell’unione di due persone coniugate in Spagna. È questa una fattispecie diversa e non assimilabile ad una surrogazione di maternità» (Sentenza Cass. n. 19599/2016, punto 10.1). E, poco più avanti, nel punto 10.2 del medesimo dispositivo: «Pertanto, la pratica fecondativa utilizzata nel caso in esame non è configurabile come una maternità surrogata […]. Si deve affermare il seguente principio di diritto: in tema di PMA, la fattispecie nella quale una donna doni l’ovulo alla propria partner (con la quale, nella specie, è coniugata in Spagna) la quale partorisca, utilizzando un gamete maschile donato da un terzo ignoto, non costituisce un’ipotesi di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma un’ipotesi di genitorialità realizzata all’interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa». Dunque, nella sentenza della Suprema Corte, presa a modello dai giudici trentini ai fini della realizzazione  dell’improbabile collage giustificatorio oggetto della presente riflessione, veniva escluso il contrasto con l’ordine pubblico semplicemente perché il caso in esame non era configurabile come un’ipotesi di maternità surrogata, come lo stesso giudice nomifilattico si premura di precisare per ben tre volte nel breve volgere di qualche rigo. E invece, il caso esaminato dai giudici di Trento, si originava esattamente dal fatto che i ricorrenti chiedevano il riconoscimento di certificati di nascita inerenti minori nati proprio da maternità surrogata. Dunque, il richiamo fatto nell’ordinanza della Corte di Appello di Trento alla Sentenza della Cassazione n. 19599/2016 per escludere il contrasto con l’ordine pubblico è quanto meno improprio, meglio sarebbe definirlo controfattuale, dato che i giudici trentini hanno cercato di giustificare per mezzo di quel dispositivo qualcosa che quel dispositivo ha espressamente evitato di trattare, perché fuori dell’oggetto del suo giudizio!

La stessa Corte costituzionale, nella Sentenza n. 162/2014 – peraltro richiamata nella stessa ordinanza oggetto del nostro esame e nella quale si legittimava il ricorso alla fecondazione eterologa per le sole coppie eterosessuali, per mezzo della dichiarazione di inconstituzionalità dell’articolo 4, comma 3 della Legge 40/2004, in particolare nella parte in cui stabiliva il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora fosse stata diagnosticata una patologia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili– aveva avuto modo di precisare, a più riprese che «la costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli (come è deducibile dalle sentenze n. 189 del 1991 e n. 123 del 1990) […]. La libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti. […]  Le parti sostengono che la locuzione “fecondazione eterologa” sia impropria, occorrendo argomentare di “donazione di gameti” che va tenuta distinta dalla cosiddetta “surrogazione di maternità” (vietata dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004)».

Ancora, la Corte di Cassazione, sempre nel 2014, con la Sentenza n. 24001, poneva in rilievo che, nel nostro ordinamento, madre è colei che partorisce secondo il chiaro disposto dell’articolo 269, comma 3 del Codice Civile e che il divieto di maternità surrogata di cui all’articolo 12 della Legge 40/2004 va proprio nella direzione di rafforzare questo principio. Il divieto di maternità surrogata, cioè, secondo il ragionamento della Corte, poteva certamente assurgere a principio di ordine pubblico, come del resto suggerito dalla previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali, e come desumibile del resto dal fatto che qui verrebbero «in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato».

Mai pronuncia giudiziale fu più chiara e cristallina nel definire concretamente come intendere il principio di ordine pubblico, nel precisare la ratio autentica dell’istituto dell’adozione, nel chiarire il ruolo da attribuire ai “progetti di genitorialità” e, infine, nel far emergere il malcelato intento ideologico che ha ispirato tutto il lavorio di fine sartorialità ermeneutica dei giudici trentini. Ma evidentemente, la mole argomentativa e concettuale di questi pronunciamenti capitali non è bastata a frenare l’impeto di creatività irresistibile di quei giudici, come non sono bastati:

    1. la posizione fortemente critica nei confronti delle pratiche di gestazione per altri espressa dal Parlamento Europeo che, nella “Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica dell’Unione europea in materia”, approvata il 17 dicembre 2015 a Strasburgo, al paragrafo 115, espressamente «condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»;
    2. la mozione del Comitato Nazionale di Bioetica italiano in tema di maternità surrogata del 18 marzo 2016, nel quale lo stesso organismo ricordava che «la maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione», aggiungendo che «tale ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali che emergono anche dai documenti sopra citati (articolo 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina del 1997 che sancisce: “Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”, contenuto che, ribadito dall’articolo 3 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali del 2000, costituisce uno dei principi etici dell’Unione europea)»;
    3. le solenni ed inattese bocciature toccate, dinanzi al Comitato per gli affari sociali dell’Assemblea Parlamenate del Consigio d’Europa, alle due relazioni presentate rispettivamente nel marzo e nel giugno del 2016, dalla senatrice socialista belga Petra De Sutter –ginecologa transgender che a Gand, in Belgio, dirige un’unità dove, manco a dirlo, la maternità surrogata è già praticata e collabora con una clinica che fa surrogacy in India– e volte a far approvare in prima battuta  la maternità surrogata tout court e, in un secondo tempo, quella altruistica;
    4. lo stralcio, dalla legge sulla Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, meglio conosciuto come “ddl Cirinnà”, dal nome della sua prima firmataria, la senatrice del Partito Democratico Monica Cirinnà, della disciplina in materia di stepchild adoption, quell’istituto giuridico che consentirebbe ai figli di essere adottati dal partner del proprio genitore biologico, così da essere legalmente riconosciuti come suoi figli anche. Ovvero, ciò che in una democrazia, costituzionale e parlamentare come la nostra, l’organo titolare della funzione legislativa rifiuta deliberatamente di contemplare, all’interno di una disciplina legale ad hoc, come possibile oggetto di una regolamentazione giuridica espressa, i giudici, come nel caso in esame, pensano bene di normare per mezzo del ricorso ad un provvedimento giurisdizionale;
    5. la sentenza della Gran Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 24 gennaio 2017 sul caso Paradiso-Campanelli, nella quale i supremi giudici riconoscevano la legittimità dell’operato delle Autorità nazionali italiane, rispetto al contenuto dell’articolo 8 della Convenzione, nel disporre l’allontanamento dai genitori committenti del minore nato da maternità surrogata all’estero. A parere della Corte, infatti nel caso di specie, avrebbero avuto un valore di non trascurabile peso gli interessi pubblici in gioco tali da giustificare perfino la compressione dell’interesse dei ricorrenti ad avere una relazione con il minore dagli stessi allontanato, dal momento che, la permanenza del minore con questi ultimi avrebbe voluto dire legalizzare una situazione dagli stessi creata, in violazione di importanti norme della legge italiana, quale appunto quella della maternità surrogata.

         Dunque nessuno di questi pronunciamenti recenti, puntuali e tra loro concordanti, emessi dalla Suprema Corte di Cassazione come dalla Corte Costituzionale, dal Parlamento europeo come da quello italiano, dal Consiglio d’Europa come dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, è valso, agli occhi dei giudici trentini, a rappresentare uno spiraglio utile ad intravedere quell’orientamento giuridico-culturale diffuso ed univocamente riconosciuto ed accettato in Europa relativo all’avvenuta messa al bando della maternità surrogata, orientamento che avrebbe potuto, anzi dovuto, rappresentare la leva legale esclusiva sulla quale argomentare il rifiuto di riconoscere efficacia giuridica alle conseguenze prodotte dal ricorso ad una simile tecnica, che nel nostro Paese continua ad essere vietata penalmente. E ciò proprio in nome di quell’ordine pubblico interno ed internazionale le cui grosse ed ormai inequivoche maglie sembrano essere sfuggite al tatto di quei giudici le cui mani erano forse troppo impegnate a compiacersi di telai, o meglio di intelaiature di ideologie pangiuridiciste e pseudoavanguardiste che incessantemente ed ubiquitariamente mettono in discussione i principi dell’ordinamento democratico dello Stato, prima ancora che quelli del sentire comune in materia di rispetto e tutela della dignità della persona. Il tutto poi in nome del rispetto del “principio alla continuità dello status filiationis del minore” che ben avrebbe potuto essere adeguatamente rispettato limitando il riconoscimento della paternità legale al solo genitore biologico: in questo modo, nessun diritto dei minori sarebbe stato conculcato, né quello di vivere e circolare liberamente sul territorio dello stato italiano, né quello al conseguimento della cittadinanza, né alcun altro, e nello stesso tempo si sarebbe potuto mantenere, ribadire e riproporre un argomento di dissuasione forte –col non riconoscere legalmente la paternità del convivente del genitore genetico– contro il ricorso, altrimenti indiscriminato, alla maternità surrogata, che non smette di apparire ai nostri occhi come una pratica denigrante, reificante, dequalificante e spersonalizzante, comunque. Del resto, sembra sia esattamente questo il sentire diffuso ed univoco di tutti i supremi consessi giudiziari e legislativi i cui orientamenti abbiamo ampiamente citato sopra… Di tutti, appunto, meno che dei creativi giudici trentini!

Antonio Casciano

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