Il matrimonio “egualitario” alla prova dell’ontofenomenologia giuridica di Sergio Cotta

di Antonio Casciano

La presente riflessione costitutisce il tentativo di conferire una fisionomia argomentativa organica ad una serie di considerazioni critiche seguite alle proposte –sempre nuove, formulate ogni giorno a latitudini, nazionali ed istituzionali, differenti– di riconoscere il diritto a contrarre matrimonio alle coppie dello stesso sesso.

Una proposta simile è stata variamente giustificata, quantunque tra le diverse ragioni addotte – garantire le condizioni per una piena realizzazione esistenziale delle persone omosessuali; contribuire alla diffusione di una cultura di tolleranza verso le stesse; venire concretamente incontro alle esigenze della loro vita di coppia– quella che fa riferimento alla necessità e all’urgenza di addivenire alla neutralizzazione giuridica del “potenziale discriminatorio implicito alla concezione tradizionale del matrimonio” pare maggiormente degna di una considerazione analitica, in specie nell’ottica della riflessione giufilosofica come quella che qui si propone.

Una premessa duplice, nel merito e nel metodo, alla trattazione che segue, introdurrà il lettore alle parti più squisitamente analitiche del testo, parti che incarnano il cuore delle argomentazioni  che saranno presentate in antitesi alle soluzioni proposte da quanti propugnano la legittimità di una simile “equiparazione anti-discriminatoria”. Dunque, nel merito, la proposta di estenedere l’accesso all’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali, rinvia ad una concezione del diritto inteso quale mero prodotto di una tecnica di normazione sociale, quasi epifenomeno dell’azione governamentale e più generalmente organizzazionale del potere politico, le cui determinazioni arbitrarie, purché avallate dal consenso di una maggioranza parlamentare, possono in qualunque caso assumere la forma normativa del precetto obbligante i consociati, a prescindere da qualsivoglia dimensione veritativa o ontologica che ne informi i contenuti. Questa concezione confligge, con altrettanta chiara evidenza, con un’altra concezione del diritto che, in antitesi a quella appena descritta, muove dal presupposto che una dimensione ontologicamente propria, autonoma e razionalmente afferrabile innervi il giuridico, senza che esso possa disfarsene se non a patto di perdere l’identità sua propria1.

Dunque, e venendo alla premessa nel metodo, nella prima parte delle riflessioni che seguono, si cercherà di sbozzare, in continuità con quanto appena detto, la fisionomia concettuale e teorica della concezione del giuridico descritta per ultima, riferendo in particolare il proprium della riflessione condotta a proprosito da un indimenticato maestro del pensiero giuridico e giusfilosofico come Sergio Cotta. Un’elaborazione dottrinale siffatta, poi, diverrà la base argomentativa a partire dalla  quale articolare  puntualmente  l’opposizione teorica  alla  proposta di una disciplina giuridica del matrimoniale ugualitario.

  1. Tecnicismo giuridico ed ontofenomenologia giuridica cottiana

La “prepotenza normativa del fattuale”, per dirla con Günther Anders, induce a considerare, nella cultura odierna, obbligatorio tutto il possibile: non si tratta cioè di vedere semplicemente come dovuto quanto si può, ma di stimare come inevitabile quanto si deve 2. Da un lato la sete prometeica di onnipotenza propria dell’uomo, dall’altro l’ossessione di affrancarsi da una cultura che ha tentato nel corso dei secoli di arginare, per mezzo del ricorso ad un impianto valoriale facente appello alla natura, le derive reificanti che sempre si accompagnano alle dinamiche del progresso, sembrano aver prodotto i frutti attesi. Tuttavia, fuori della metafora filosofica andersiana, il “dislivello prometeico” che tutto ciò ha generato pare potersi evincere senza difficoltà alcuna da una seria di dati di natura sociologica: 1) il carattere entropico della dissoluzione dell’ordine sociale e normativo tradizionale, dal costume, alla morale, al diritto; 2) il predominio visibile della tecnica come razionalità organizzata e dominante che ha soggiogato l’uomo ad un apparato dissimulante  la volontà di potenza di chi lo controlla realmente; 3) la stessa nuova concezione del diritto che un simile scenario esistenziale, post-soggettivo e post-umano, post-metafisico e post-moderno, ha contribuito a creare.

Il diritto del quale parliamo è appunto il diritto ridotto a tecnica, prodotto di una cultura che ritiene di dover spazzare via i residui ultimi di un’obsoleta concezione giusnaturalista, così da realizzare compiutamente la silente soggezione dell’uomo all’autoreferenziale mentalità  tecnocratica. All’ordine gerarchico tipico della ragione legislatrice universale proprio della modernità, si è progressivamente sostituito il pluriversum anarchico, caotico, afinalistico proprio della postmodernità. E tuttavia una siffatta cultura post-moderna e post-metafisica, che ha  congedato per sempre l’ontologia e, con essa, i concetti di essere, verità ed essenza che le erano propri, continua a vivere nell’illusione di poter dominare in qualche modo, o finanche di poter convertire a scopi più umani, l’incedere della tecnica, senza mai rimettere in discussione, come parrebbe necessario, l’uomo e il ruolo, di mero fruitore e non di creatore, che gli spetta nell’universo3.

La tecnica pura nel diritto, quella del positivismo giuridico formalista di matrice kelseniana per intenderci, sfrutta ed alimenta un pensiero filosofico che non avvertendo più il limite di verità ultime da rispettare, sfocia in un nichilismo ontologico, in un “nichilismo delle essenze”, dal quale è possibile uscire solo a patto di tornare ad un pensiero filosofico che, opponendosi all’idea dell’aperta ed illimitata trasformabilità dell’essere, riproponga la necessità di un ancoraggio metafisico del discorso sull’esserci dell’ente, nelle sue varie dimensioni esistenziali, relazionali, etiche e  giuridiche4. Si tratta insomma di riscoprire il senso autentico del giuridico, perché solo nella prospettiva di una sua ritrovata identità si potranno forse addurre argomentazioni, razionali e ragionevoli, in forza delle quali vagliare ed eventualmente respingere le sollecitazioni che da ogni parte oggi interpellano il diritto, in vista del riconoscimento di istanze, molteplici, etererogenee, spesso in conflitto, provenienti da attori sociali ogni volta diversi5.

La proposta cottiana, in tal senso, va nella direzione di coniugare la ricerca fenomenologica del senso del giuridico con la ricerca della struttura ontologica del soggetto-uomo: si tratta, a ben guardare, di una proposta di lettura del giuridico dell’umano che appare in grado di offrire delle categorie concettuali significative da un punto di vista sia dell’antropologia filosofica che della filosoia della prassi6. Anzi, l’insolita profondità dello spaccato antropologico che Cotta offre con la sua teoresi, per mezzo di un approccio conoscitivo all’uomo di tipo fenomenologico, ha fatto sì che la sua riflessione venisse preferita in questa sede ad altre strategie speculative intorno al giuridico che, muovendo da astratte categorie giusteoriche di matrice filosofico-analitico, tentano di giungere fino all’uomo. Cotta, invece, invertendo una simile strategia d’indagine, muove dall’uomo, da ciò che egli è essenzialmente, dalla struttura ontologica del suo essere, indagata a partire dalle manifestazioni fenomeniche del suo esistere nel mondo: è l’impostazione tipicamente hidegerriana della fenomenologia come metodo d’accesso all’ontologia7. L’origine del giuridico, dunque, come fenomeno tipicamente ed esclusivamente antropico, non va cercata storicamente, ma acclarata ontologicamente, a partire cioè dalla struttura onto-fenomenologica dell’uomo stesso: a fondamento dell’esserci dell’uomo nel mondo, scopriamo il suo con-esserci, il suo abitare la realtà non nell’isolamento, ma nella condivisione necessariamente, naturalmente, origiarimente regolata: si tratta di una coesistenza relazionale, di un “esserci insieme” che è assurge ad indice rivelativo dell’essenza del diritto8.

Dunque, dicevamo, l’individuo concreto. Questi rivela fin da subito una costitutiva indigenza, una strutturale incompiutezza, una naturale finitezza che si manifesta nella forma del “tendere a”: l’agire di ogni uomo è sempre un “tendere a”, un ambire cioè a qualsosa di cui si è privi e che si considera necessario in vista della realizzazione del sé9. Ma fin dall’infanzia l’agire intenzionale del soggetto si scontra con la resistenza opposta da altri “uguali”, che parimenti agiscono, all’inteno dell’unico  spazio-ambiente,  come  altrettanti  soggetti  attivi10.  In  tale  situazione  di  altrui   com-presenza, il “tendere a” si trasforma in un “pretendere da”, giacché ogni azione ha in sé una pretesa implicita rivolta agli altri “io-soggetto”: pretesa di non essere impedito nella realizzazione di ciò che ci si è prefisso come scopo dell’azione; pretesa di ricevere dall’altro assistenza; pretesa di accaparrarsi in maniera esclusiva i beni scarsi presenti in natura e stimati come necessari. La compresenza di pretese tutte soggettivamente vere e legittime, pone il soggetto dinanzi ad un bivio: fermarsi alla pura constatazione di un simile stato di cose, e lasciare che le dinamiche intersoggettive siano disciplinate in ultima analisi dalla legge del più forte; oppure ricercare, sperimentare ed attuare forme per una possibile coesistenza di tali pretese, muovendo da una dimensione veritativa oggettiva che funga da criterio guida11.

L’operazione di riduzione fenomenologia, di husserliana memoria, operata a partire dalle “condizioni esitenziali dell’uomo”, sembra dunque rivelare due dati essenziali del suo essere: 1) la sua strutturale difettività, che lo spinge ad un agire ininterrotto all’interno dello spazio-ambiente che abita, ponendolo in relazione con i suoi simili; 2) la constatazione di un con-esserci nel mondo, la presa di coscienza cioè della necessaria condivisione degli ambienti vitali con soggetti aventi la medesima natura, i medesimi bisogni, la medesima dignità. Le condizioni di compresenza di più soggetti nel medesimo spazio vitale, domandano l’adesione a modelli di condotta che rispondono ad un “dover essere”, o meglio ad un “dover di essere”, il dovere di uniformare le esistenze dei singoli alla verità dell’essere dell’uomo, che pretende e nel contempo deve12.

E in questa struttura ontologico-relazionale dell’essere umano già si scorge e si comprende il senso e il fondamento dell’esserci della giuridicità: la normatività appare cioè iscritta nella “ontologica coesistenzialità relazionale” dell’essere umano che, dapprima, aprendosi all’alterità, giunge ad una autocomprensione riflessiva del sé e, poi, trascendendo la propria onticità fattuale e concependo la propria esistenza come com-possibilità, accetta la normatività come condizione di esercizio della libertà13. È in questo senso che si può affermare che ogni essere umano è un essere necessariamente relazionale e in questa relazionalità sta scritto il suo “dover essere”: un essere costitutivamente relazionale, dunque un “essere” che simultanemante è un “dover essere”, un’ontologia relazionale appunto.

La onto-fenomenologia di Cotta permette allora di trasferire la nozione di natura normativa dell’umano al piano del diritto, non più concepito come pura fatticità, né  come  formulazione astratta, ma come ordine simbolico che costituisce la sintassi e quindi la condizione stessa dell’espressività dell’uomo come essere culturale: in questo senso si può parlare di una “giuridicità intrinseca dell’essere umano”14. Tale giuridicità ha come funzione propria quella di realizzare la coesistenza delle libertà nella legalità universale: la funzione propria del diritto, tutt’alro che formale, è allora quella di attuare e rendere possibile la legalità universale secondo giusitizia per mezzo di una norma che non è mai solo “regola”, ma che è in primis “misura”, msurata e misurante, condizione di possibilità della coesistenzialità autentica dell’uomo15. Da qui la giustificabilità della forza coattiva che sostanzia il carattere primario del diritto: la obbligatorietà.

L’obbligatorietà del diritto esprime, a sua volta, tanto le dimensioni della “pretesa” e del “debito”, che promanano direttamente dall’esclusiva ed inconculcabile dignità dell’uomo nell’istante in cui diviene consapevole del proprio “sè” nell’interazione inevitabile con con un’alterità che pretende e che deve rispetto, quanto la necessità di una concrezione positiva, normativa ed ordinamentale, che giammai trascenda i limiti della sua stessa origine: quella struttura radicalmente giuridica dell’essere umano cui abbiamo accennato ampiamente prima; o, il che è lo stesso, quel nucleo radicale di giuridicità naturale16. E proprio prendendo le mosse da quel nucleo di realtà giuridica inerente l’essere umano, che è un espressione dell’ordine del “dover-essere” e che però appartiene all’ ”essere”, è possibile costruire la realtà giuridica positiva, normativa, ordinamentale, per mezzo di consuetudini, regolamenti, leggi e istituti.

Dunque in nessun caso il diritto può e deve considerarsi come un prodotto umano puramente culturale, il cui contenuto possa essere arbitrariamente deciso alla luce degli interessi contingenti della maggioranza politica che storicamente controlla il potere legislativo: è imprescindibile entrare nell’ottica di considerare sempre la produzione giuridica come declinazione normativa di una realtà ontologica più profonda, che struttura l’essere umano, che del diritto è l’origine e il fine17. E proprio in quest’ottica appare necessario collocare la riflessione che concerne l’istituto del matrimonio, in vista delle considerazioni che la proposta di consentirne l’accesso alle coppie dello stesso sesso va generando.

2. Il processo di rivisitazione dell’antropologia sottesa al matrimonio tradizionale

Per secoli, e a qualsiasi latitudine, il matrimonio è stato concepito come l’unione tra un uomo e una donna i quali si impegnano pubblicamente a vivere una relazione di assistenza mutua, permanente e reciprocamente esclusiva, relazione naturalmente aperta alla generazione della vita e costitutivamente proiettata alla crescita e alla educazione della prole. Per secoli dunque il riconoscimento giuridico del connubio matrimoniale ha riposato sull’esistenza di un connotato ontologico preciso, essenzialmente riconducibile al dato naturale del dismorfismo sessuale tra i contraenti il patto nuziale. Detto altrimenti, giammai era parso possibile offrire cittadinanza, all’interno degli ordinamenti giuridici positivi, ad un istituto, quello matrimoniale, che potesse prescindere dal considerare essenziale, ossia ontologicamente necessario ai fini della definizione dell’identità sua propria, il dato della complementarietà sessuale tra i coniugi. Lo stesso matrimonio civile, come fattispecie progressivamente affrancatasi da quella contemplata nel diritto canonico, si è, a ben guardare, sviluppato secondo un processo che, esulando dalle disposizioni canonistiche più squisitamente inerenti il carattere trascendente dell’istituto, ha finito col dar vita ad un modello che mai aveva messo in discussione il carattere eterosessuale dell’unione tra i nubendi. Oggi, tuttavia, non sembra residuino dubbi sul fatto che il processo di dissoluzione completa dello stesso istituto civilistico del matrimonio stia giungendo ai suoi esiti estremi. Quali le cause di una progressione simile? Una risposta esaustiva a tale questione, esige da un lato una disamina attenta delle ragioni umane, morali e sociali che hanno storicamente prodotto una conformazione disciplinare  dell’istituto implicante il dato della diversità sessuale dei contraenti il patto nuziale, dall’altro un esame accurato delle recenti vicende antropologiche, storiche e culturali che, producendo una rottura senza precedenti in quella circolarità nomopoietica di natura e cultura descritta sopra, ha messo definitivamente in questione il dato biologico della differenza sessuale quale requisito minimo di validità dell’unione nuziale, non senza aver prima proceduto ad una decostruzione radicale e sistematica della medesima identità sessuale dei singoli per mezzo della cosiddetta  cultura gender.

Alla base del matrimonio tradizionale sempre ha insistito una antropologia della differenza/complementarietà che lungi dal costituire un’opzione preferenziale motivata culturalmente, radicava nella natura stessa della corporeità femminile e maschile, la cui unione non è solo dono, ma potenziale accoglienza del terzo. Il donarsi e il ricerversi in quest’ottica si attuano in un’intimità che domanda l’integralità nel dono, la permanenza nell’offerta del sé. Tale fondamento antropologico, si ripete, non è stato oggetto di un’opzione preferenziale, tra le altre possibili, all’atto di disciplinare l’istituto del matrimonio, ma è stata piuttosto la potenziale e prospettica ricchezza umana, personale, relazionale e sociale di siffatto tipo di unione ad occasionare la creazione di un istituto ad hoc che ne potesse consacrare la forma e cristallizzare gli effetti dinanzi alla collettività. Dunque, potremmo anche pensare in teoria di aprire al ricoscimento legale di unioni omosessuali, ma in tal caso non si potrà, nè si dovrà parlare ancora di matrimonio: in altre parole non staremmo ragionando su un’apertura del matrimonio a questo tipo di coppie, ma di continuare a chiamare con il medesimo nome qualcosa che non sarebbe più tale. La complementarietà sessuale ha origine dall’amore ed è finalizzata all’amore: l’amore chiede di attuarsi nella forma dell’apertura al dono, dell’offerta accogliente del sé, implicando dunque una differenza radicale e integralmente complementare capace di attuare una “unione corporale organica”18. In tal senso, il consenso prestato dai contraenti, come elmento giuridico richiesto ad sustantiam in vista del perfezionamento del vincolo matrimoniale, altro non è che un con-sentire, un suggelare il desiderio condiviso di sentire insieme appunto, all’unisono.

La rottura di questo paradigma culturale ha richiesto la messa in discussione previa di altri tre ulteriori assunti, un tempo parti di un patrimonio culturale collettivo, assolutamente indiscusso, accettato per generazioni. Si pensi in primis alla concezione della sessualità come luogo privilegiato in cui realizzare la donazione totale del sé all’altro, in vista di un’unione capace di aprirsi alla generazione di una nuova vita. La nostra natura biologica ci conforma come esseri sponsali, capaci di completarsi e compiersi nell’unione di anima e corpo con un altro essere che sentiamo complementare a noi. Ma siffatta sponsalità, se vista nella prospettiva della generazione, chiede di incarnarsi nella forma della nuzialità19: la nostra è una sponsalità nuziale, coniugale, perché l’apertura alla vita domanda una coappartenenza e una comunicazione sessuale, intima, reciprocamente penetrante, offerente, da parte dei nubendi. Quest’idea è però stata soppiantata da una strisciante cultura implicante una sostanziale spersonalizzazione/oggettivazione del corpo umano, soggetto e oggetto di questa mutua offerta, cultura che ha condotto a guardare alla corporeità come ad una entità esterna al sé e alle declinazioni particolari di essa come a delle mere funzioni organiche passibili di ricevere un senso solo all’interno di una più ampia visione strumentale, oggettivante, in ultima analisi reificante. In quest’ottica, la stessa sessualità è apparsa come un dato privo di un significato proprio e specifico, passibile di riceverne uno solo all’interno dell’agire autonomamente deliberante di ogni soggetto, che appare dunque in grado di salvare il contenuto morale di qualsiasi pratica sessuale, purché scelta, accettata e attuata in autonomia.

In secundis, si rifletta sulla messa in discussione del paradigma culturale che per secoli ha ravvisato un’unità sostanziale tra la sfera dell’unione erotica e quella dell’amore agapico, visione che tacciava di utilitarismo l’idea di una sessualità vista e vissuta come pratica disgiunta da una considerazione sinceramente affettiva e inclusiva del partner. E tuttavia la strumentalizzazione della sessualità si traduce sempre in una frantumazione dell’unità antropologica dell’io: quest’unità che ciascuno deve conservare con il proprio corpo e con le funzioni di ciascuna sua parte, è presupposto per conseguire una fecondità spirituale prima ancora che fisica. Se la persona umana frantuma il suo io, sottomettendosi deliberatamente a logiche auto-strumentalizzanti, frammenterà anche la sua unità biografica e non giungerà ad attualizzare quella potenza di comunione che l’atto congiunto di volontà pienamente ed autenticamente libere solo possono realizzare.

In tertiis, si consideri il rifiuto, oggi culturalmente generalizzato, di concepire congiuntamente le due dimensioni proprie della sessualità, quella unitiva e quella procreativa: la “nobilitazione” della contraccezione da un lato, la procreatività artificiale dall’altro hanno infatti progressivamente condotto ad una visione dell’amore coniugale non più orientato al dono della vita, e questo sia perché è stato visto come possibile un amore coniugale deliberatamente chiuso alla vita, sia perché si è assistito al diffondersi di procedure biomediche di produzione della vita che prescindono completamente dal dato dell’amore coniugale, pure forme di attuazione pratica di desideri individuali che la tecnica ora rende possibili. E invece un’intenzione unitiva autentica, sempre reca in sé qualcosa che ha a che fare con l’eternità, con il “per sempre”: un’intenzione unitiva autentica si nutre di un desiderio di fedeltà esclusiva, di consegna escludente del dono di sé, in vista della generazione di qualcosa di ancora più grande che consapevolmente trascenda gli stessi donanti: l’intenzione unitiva autentica implica la fedeltà del dono esclusivo del sé che si apre alla vita, implica cioè l’universo di senso della fecondità, fisica e spirituale.

 3. Sulla non necessità di una disciplina giudica ad hoc per le unioni omosessuali

In questa rivoluzione antropologica operata sul piano della cultura umana, personale e relazionale, si inserisce anche la rivisitazione profonda della stessa concezione giuridica dell’unione matrimoniale, alla quale intendiamo accennare in questa seconda parte della riflessione che qui si conduce.

Da sempre la funzione sociale del matrimonio, la sola che possa in qualche modo interessare  il diritto, è stata triplice: 1) assicurare la continuità della specie umana; 2) garantire l’ordine delle generazioni; 3) procurare il migliore ambiente possibile per la crescita libera, l’educazione responsabile e lo sviluppo sano della personalità dei singoli. A ben vedere, però, queste funzioni sembrano univocamente postularne una ulteriore: mi riferisco a quella propriamente procreativa, dacché ciò che il matrimonio è chiamato a garantire non è l’amore narcisistico, usando una terminologia freudiana, e tantomeno la circolarità affettiva mera tra i partner, quanto piuttosto l’ordine, la sicurezza e l’equilibrio del corpo sociale attraverso la generazione e la creazioni di condizioni che potessero assicurare stabilità a quella cellula sociale primaria che è la famiglia. Il diritto ha il dovere di garantire l’ordine delle generazioni e a questo fine appronta, da sempre e negli ordinamenti rinvenibili a qualsiasi latitudine, uno strumento specifico quale è appunto il matrimonio, istituto “forte”, chiamato ad opporre un argine alla forza dissolutrice e ultimamente antisociale dell’individualismo narcisistico per mezzo dell’accettazione, libera e dunque  responsabile del coniugio, parole che rinvia etimologicamente alla metafora, dal sapore bucolico, della coppia di buoi obbligati a procedere di pari passo nell’aratura dei campi per mezzo della soggezione ad un medesimo giogo. Ora negare l’accesso al matrimonio a coppie del medesimo  sesso non può esser detto atto di discriminazione, semplicemente perché le coppie dello stesso sesso non possono dirsi ugualmente aperte alla generazione della vita, e dunque alla perpetuazione e all’ordine delle generazioni, al pari di quelle eterosessuali. E’ ben vero che i progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnica nell’ambito della procreazione artificiale ben consentono anche alle coppie omosessuali di accedere alla riproduzione, ma in tal caso il relativo processo biomedico involverà sempre un soggetto terzo alla coppia, che non solo rompe la circolarità affettiva della stessa, ma addirittura può minacciarne quella stabilità che rappresenta l’obiettivo principale che il diritto è chiamato a garantire. In ultima analisi ciò che il diritto difende, nella disciplina del matrimonio, è la stabilità del rapporto coniugale in vista della generazione, esigenze che solo l’esclusività di una relazione, auspicabilmente amorosa, tra i coniugi può prospetticamenre garantire, esclusività che a sua volta riposa su una fertilità circolare e autosufficiente che solo la coppia eterosessuale può assicurare.

Sarebbe miopico lo sguardo di chi non considerasse la possibilità di una comunione affettiva che sorga anche all’interno di una coppia omosessuale, così come inaccettabile sarebbe la  negazione, parimenti distorta, di una infertilità che può eventualmente riguardare la coppia eterosessuale. Tuttavia, mentre la circolarità affettiva, ancorché configurabile anche in una coppia omosessuale, non rileva affatto rispetto a quelle che sono le finalità di tutela proprie del diritto, che comprensibilmente si disinteressa di una tale dimensione esclusiva, allo stesso modo, l’infertilità della coppia eterosessuale appare passibile di configurarsi come ipotesi eccezionale, che mai potrà confondersi con la regola della fertilità implicata esclusivamente dalla complementarietà tra i sessi. Il fatto poi che anche una coppia eterosessuale possa accedere, in caso di sterilità di uno o di entrambi i membri della stessa, alla fecondazione eterologa, favorendo l’accesso di un terzo nella dinamica relazionale e affettiva della coppia medesima, ebbene, questo non solo conferma l’inopportunità, rispetto al paradigma antropologico personalista che qui si propone e difende, del ricorso indiscriminato, da parte della coppia, ancorché eterosessuale, a qualsiasi mezzo offerto dalla tecnica in vista del soddisfacimento del desiderio di genitorialità, ma altresì avalla l’idea che il diritto, in questi casi, continui nonostante tutto a svolgere la funzione sua propria, quella cioè di garantire almeno la sussistenza di un ambiente familiare eteroparentale che appare ad ora, e fino a smentite scientifiche ad oggi non ancora convenientemente offerte, ideale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei singoli, che necessitano della complementarietà sessuale dei genitori per sviluppare una personalità sana, ovvero equilibrata rispetto alla propria sessualità biologica, se è vero che l’origine psicanalitica dell’omosessualità sembrerebbe riposare proprio sull’indebita prevalenza, nell’equilibrio genitoriale, di una figura sessuale rispetto all’altra.

Perché dunque il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso non può essere accettato, e meno che mai nella forma canonica del matrimonio classico? Semplicemente perché non sembra sussistano ragioni giuridico-sociali sufficienti per giustificare la richiesta di un riconoscimento pubblico di un’unione che pretende di avere rilevanza in virtù del preteso vincolo affettivo di coloro che la compongono. Il compito che il diritto sarebbe chiamato ad assolvere in questo  caso, cioè,  parrebbe essere quello  di offrire un riconoscimento  puramente     simbolico  ad istanze che possono essere soddisfatte accedendo ad soluzioni altre offerte dall’ordinamento giuridico20. Mi riferisco non solo alla possibilità di ricorrere alla disciplina giuridica delle unioni civili, quanto altresì all’ampio novero di strumenti di natura privatistica cui l’autonomia contrattuale privata può liberamente accedere, in vista della disciplina di esigenze sociali che ragionevolmente derivino dalla convivenza di persone dello stesso sesso e che possono trovare una risposta proprio nel diritto volontario, e precisamente in uno strumento tipico quale è il contratto. Penso alla nomina del convivente come fiduciario in vista dell’esecuzione delle disposizioni contenute in un testamento, mortis causa o biologico, al subentro nelle locazioni, o a un contratto per stabilire come ripartire le spese o gestire i beni comuni della convivenza, o a come assicurare l’assistenza carceraria o ospedaliera del partner. Sono tutte esigenze reali, legittime, alle quali si può dare una risposta senza cha appaia neppure necessario approntare uno statuto giuridico esclusivamente dedicato alle convivenze omosessuali che abbia per giunta un carattere pubblicistico, bensì riconoscendo valore legale ad accordi bilaterali privati perfettamente opponibili a terzi pur rimanendo nell’ambito della sfera privatistica.

 4. Quali conclusioni?

Dunque, e riassumendo, se è vero che le leggi sono possibili perché la ragione umana appare capace di individuare ed isolare tratti comuni al modo di vivere dei membri di dati gruppi e, a  partire da questi elementi, operare perché gli stessi assurgano a rappresentazioni formali idonee ad essere applicate a tutti i componeneti il medesimo gruppo; se è vero, cioè, che la stessa tecnica di redazione normativa si basa su una operazione razionale di riduzione della complessità del reale a partire da elementi comuni agli enti che formano quel medesimo assetto concreto, allora sarà possibile afferamre con sicurezza che senza questo processo razionale di astrazione, la causa efficiente, quella finale e la funzionalità stessa del diritto non sarebbero possibili. Conosciuto, cioè, gli elementi di un insieme, il giurista è chiamato ad eliminare quelle note che identficano ciascuno di essi uti singuli e a considerare quelle predicabili per tutti gli oggetti del medesimo gruppo, è chiamato cioè ad astrarre dalla realtà quelle note comuni che riflettono una trama di relazioni significanti che compete al diritto conoscere a preservare, in vista della realizzazione di un ordine sociale che voglia dirsi giusto.

Ora, dunque, abbiamo detto che esiste un nucleo naturale di giuridicità che può configurarsi come un criterio normativo originario, ultimo, obiettivo della condotta umana. Il processo di riduzione della complessità del quale abbiamo parlato e che abbiamo definito astrazione, è esattamente ciò che permette di isolare un nucleo originario di verità ontologica circa l’essere umano a partire da gli elementi che ne configurano la realtà fenomenologica. Nella trasparenza di questo nucleo naturale di giuridicità, distinguiamo una quantità di diritti e doveri che radicano nella natura propria dell’uomo, un ambito nomopoietico non relativo, né storico, e tantomeno culturale, che assurge a criterio oggettivo di condotta sociale, a criterio normativo del giusto e dell’ingiusto.

Posto dunque che esistono diritti e doveri naturali, esisteranno allora anche relazioni giuridiche naturali, o meglio, relazioni naturalmente giuridiche, cioè «se intendiamo l’ordinamento giuridico come un sistema di relazioni giuridiche, il nucleo naturale di giuridicità è costituito da un nucleo di relazioni giuridiche naturali»21. Questo sembra essere una conseguenza della relazionalità naturale dell’essere umano, della sua co-esistenzialità ontologica, che permette di riconoscere l’esistenza di una serie di relazioni sociali che non sono mai meri prodotti culturali, ma che piuttosto appaiono come sistemi o istituzioni naturali, la cui struttura fondamentale è disegnata dalla natura stessa: le unioni che queste relazioni implicano sono basate su vincoli naturali, e gli effetti che tali unioni possono generare sono regolati da leggi naturali, oltre che fisiche, biologiche. Tra le principali relazioni giuridico-naturali –quelle paterno-filiali, quelle parentali, quelle che esistono tra i membri di una comunità indigena, per esempio– incontriamo appunto quella che nasce dall’unione matrimoniale.

Questo ci induce a concludere che con il termine “matrimonio” si è definito da sempre, e si dovrebbe auspicabilmente continuare ad identificare, quell’unione la cui struttura essenziale, distintiva, ontologica è inscritta nella naturalità e complementarietà sessuale dei coniugi, in vista della generazione umana, dimensione identificativa che abbiamo isolato guardando a delle relazioni naturali che, iscrivendosi nella realtà fenomenológica dell’uomo, ci parlano della sua natura autentica, sia come essere individuale che sociale. In questo senso, le coppie dello stesso sesso dovrebbero poter contare con strumenti di protezione che, pur permettendo la giusta e legittima realizzazione delle loro istanze, non giungessero al punto di pretendere una perfetta equiparazione  al matrimonio, ma che più opportumante venissero limitati alle soluzioni offerte dal diritto privato. Le rivedicazioni in questo senso avanzate appaiono non fondate adeguatamente, giacché da un lato postulano l’accesso ad un istituto che domanda requisiti il cui possesso le coppie omosessuali non possono garantire, dall’altro paiono ignorare il fatto che un’adeguata tutela del loro petitum appare pienamente possibile per mezzo dell’accesso agli strumenti offerti dal diritto privato. Se poi dette rivendicazioni divengono malcelati pretesti per conseguire una forma di legittimazione sociale delle unioni omosessuali che sia particolarmente stringente, come è appunto quella offerta dal diritto, allora il discorso cessa di essere esclusivamente riferibile all’universo della razionalità giuridica, per divenire di natura più propriamente culturale, sociale, antropologica, dimensioni tutte che il diritto ben conosce, che lambisce e subisce di continuo, mai sulle quali mai dovrebbe potersi pronunciare per mezzo della sola sua parola autoritativa.

Antonio Casciano


  1. COTTA, , Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1991.
  2. ANDERS, G., L’uomo e antiquato. Volume Sulla distruzione della vita nella terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pp. 367 e ss.
  3. COTTA, , L’uomo tolemaico, Rizzoli, Milano, 1975.
  4. POSSENTI, , Il nichilismo teoretico e la morte della Metafisica, Armando Editore, Roma, 1995.
  5. HERVADA, , Lecciones propedéuticas de filosofía del derecho, EUNSA, Pamplona, 2008, p. 582 e ss.
  6. ARGIROFFI, A., Il diritto nell’esistenza di Sergio Cotta e la tardamodernità secondo Günther Anders, “Persona y Derecho”, 57, 2007, pp. 245 – 268;
  7. HUSSERL, E., HEIDEGGER, M., Fenomenologia, Unicopli, Milano, 1999, pp. 235 –
  8. PAREYSON, , Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1971, p. 15 e ss.
  9. COTTA, , Il diritto nell’esistenza, cit. p. 52. 10 COTTA, S., Il diritto nell’esistenza, cit., p. 53.
  10. COTTA, , Il diritto nell’esistenza, cit., p. 56.
  11. COTTA, , Il diritto nell’esistenza, cit., pp. 94 – 96.
  12. ROMANO, B., Ricerca pura e ricerca applicata nella formazione del giurista, Giappichelli, Torino, 2008, p. 26 e ss. 14 PUNZI, A., L’intersoggettività originaria, Giappichelli, Torino, 15
  13. COTTA, S., Soggetto umano Soggetto giuridico, Giuffré, Milano, 1997, p. 111. 16
  14. HERVADA, J., Lecciones propedéuticas de filosofía del derecho, cit., p. 473
  15. HERVADA, , Lecciones propedéuticas de filosofía del derecho, cit., p. 477 e ss.
  16. GIRGIS, S., ANDERSON, R. , GEORGE, R. P., What is a Marriage? Man and Woman: a Defense, Encounter Book,  New York – London, 2012, passim.
  17. GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, Esortazione Apostolica, n.
  18. ARAMINI, M., PACS, matrimonio e coppie omosessuali: quale futuro per la famiglia, Paoline, Ed. Milano, 2006,      54.
teen beauty samantha rone ties up cassidy klein in hot ropes.taiwan girls