L’esercito delle due scimmie

 

Eccole. Due scimmiette identiche di otto e sei mesi, Zhong Zhong e Hua Hua, poggiano le zampette e il muso sulle pareti di vetro della loro gabbia. Fissano le telecamere per un momento, e quello dopo si arrampicano qua e là come possono, riprese dalle televisioni di tutto il mondo civilizzato: la loro esistenza in vita è un grande successo per la scienza. Evviva, evviva. La loro particolarità è che sono una la copia dell’altra. Sono bestioline clonate da  studiosi cinesi – futuri milionari, si può ipotizzare –  frutto di esperimenti e manipolazioni che, dopo anni di successi parziali, hanno permesso in poche parole di porre in una cellula animale prelevata da un feto, fatto innovativo, il nucleo prelevato da un’altra cellula (quella che si vuole clonare), fecondarla artificialmente  e porre quindi l’embrione così ottenuto nell’utero di una madre surrogata. Mirabile sotto il punto di vista scientifico, aberrante sotto il profilo etico, ma tant’è. Tre madri, come per l’esperimento precedente, quello della pecora Dolly, che risale a vent’anni fa, ottenuta con una tecnica diversa e meno efficace. Tale processo ora si potrà replicare dieci, cento, mille volte, in maniera asettica e senza preoccupazioni di sorta, se non quella di stabilirne il numero, a seconda delle necessità. Questi esemplari, tanti e tutti uguali, saranno lì a disposizione di case farmaceutiche o magari anche dell’industria cosmetica.

In quella gabbia dalle pareti di vetro, prigione dorata, gli scienziati hanno pensato di porre anche un peluche, così da poter mostrare al pubblico due scimmiette non solo alimentate con il biberon, ma persino fornite di giochi con cui intrattenersi. Queste due femminucce fanno tenerezza, manca loro solo la parola. Sono così umane, o, meglio, così umanizzate. Come a dire:  oggi abbiamo avuto successo con la clonazione della scimmia, e, vedete? non c’è nulla di male, il plauso generale lo conferma; domani, applicheremo il metodo all’essere umano, e chi vorrà opporsi sarà considerato quantomeno antiquato, antiscientifico, vile, persino antieroico. Lo scienziato è da venerare e non da ostacolare perché la sua creatività, il suo osare continuo, lo pone al di sopra delle leggi morali, e il suo fine è quello dell’utilità comune, sempre e comunque. Un’argomentazione convincente per sostenere l’estensione della clonazione a tutte le specie viventi è il fatto che mai come ora, con la prospettiva di un gran numero possibile di esemplari in vita su cui fare esperimenti, siamo vicini ad approntare cure per scongiurare l’avanzare dei processi tumorali e debellarli per sempre. Di conseguenza, dal momento che terapie del genere sarebbero utilissime, le discussioni sui metodi da usare possono essere archiviate come meramente accademiche. Un altro punto a favore della clonazione è poi quello di avere eventualmente a disposizione organi di ricambio qualora quello originale fosse lesionato, perché i trapianti tra esseri perfettamente compatibili sarebbero di una facilità estrema: nessun pericolo di rigetto.

Si arriverà a giustificare il bisogno di clonare esseri umani che replichino il nostro patrimonio genetico per potercene servire al bisogno? Esisterà un mondo diviso in caste sociali, le prime intoccabili, le ultime a servizio delle prime? Nel celebre e discusso romanzo di fantascienza di genere distopico “Il mondo nuovo” dello scrittore britannico Aldous Huxley,  gli esseri umani vengono creati in provetta e destinati a essere dominati o dominatori: agendo nella fase di sviluppo degli embrioni, gli uomini venivano generati in modo da avere un grado di intelligenza dal più alto, gli alfa, progettati per il comando, al più basso, gli epsilon, destinati alle mansioni più umili e alla sopportazione di fatica e dolore, passando poi per le fasi intermedie dei beta, dei gamma, dei delta. Una società predeterminata e ordinata dal progresso scientifico, in cui si impone la dittatura di coloro che vengono selezionati a monte per essere i più forti.

Siamo lontani da tutto questo, è vero, e d’altronde il romanzo, scritto negli anni Trenta, non poteva neppure arrivare a ipotizzare gli attuali progressi della genetica e i panorami che essa va ora aprendo con la prospettiva della clonazione umana.

Che cos’è un clone se non la realizzazione del desiderio di replicarci e vivere ancora, vivere senza malattia, vivere in un paradiso terrestre dove il nostro corpo può rigenerarsi o essere sostituito a piacimento, a prescindere dal nostro stile di vita?

E’ certo che stiamo creando un mondo nuovo, un mondo altro da quello che conoscevamo, per il quale dobbiamo stabilire delle regole, porre dei paletti, in modo da preservare la persona umana nella sua originalità, singolarità, bellezza, e dare un valore e un peso a ciascun essere vivente, anche a quello malato. Perché in fondo sappiamo che nel limite della malattia nostra o dei nostri cari, nell’affrontare con coraggio un deficit fisico, nella sofferenza di una vita che è in fase terminale, proprio lì arriviamo a toccare in maniera profonda il portato di umanità e amore di cui siamo capaci, arriviamo a capire il senso del dono gratuito della vita che abbiamo ricevuto.

Antonietta Rossi

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