ONU: Come rendere più agevole l’accesso ad aborto ed eutanasia

Come rendere più agevole l’accesso ad aborto ed eutanasia.

La rilettura della carte fondamentali della Comunità internazionale proposta dall’ONU

di Antonio Casciano, PhD
Fondazione “Ut Vitam Habeant”

Il Patto internazionale sui diritti civili e politici nacque, unitamente al Pattto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, per ovviare alla mancanza di obbligazioni cogenti all’interno della Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo. A tre decenni dalla formalizzazione dell’impegno assunto dalle Nazioni Unite di dar vita ad una “Carta internazionale dei diritti dell’uomo”, nel 1976 l’epocale impresa vedeva finalmente la luce nell’approvazione e nell’entrata in vigore di tre importantissime convenzioni: il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, ed il Protocollo facoltativo collegato a quest’ultimo.

Non fu facile addivenire ad un accordo su un novero di diritti che fosse accettabile ai rappresentanti di nazioni diverse per identità culturale, tradizioni religiose ed ideologie politiche. Anzi, fu proprio a causa delle divergenze nate tra i Paesi membri dell’Assemblea riguardo alla lista dei diritti (civili e politici oppure economici, sociali e culturali) da considerarsi prioritaria nella stesura de testo, che si optò per la creazione di due convenzioni internazionali distinte. I due Patti furono elaborati, articolo per articolo, dapprima in seno alla Commissione dei diritti dell’uomo, e successivamente nella Terza Commissione dell’Assemblea generale. Il 16 dicembre 1966, l’Assemblea votava l’approvazione dei Patti internazionali e del Protocollo facoltativo. Doveva però passare ancora un decennio prima che i Patti venissero ratificati da un numero di Stati sufficiente alla loro entrata in vigore. Occorrevano infatti per ciascuno di essi ben 35 ratifiche (o adesioni). Essendo stato raggiunto tale numero, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali entrava finalmente in vigore il 3 gennaio 1976. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché il Protocollo facoltativo ad esso collegato, entravano invece  in vigore il 23 marzo 1976.

Gli Stati che avevano ratificato il Patto sui diritti civili e politici, avrebbero poi provveduto alla nomina di un Comitato per i diritti dell’uomo composto di 18 membri. In conformità alle disposizioni del Patto, il Comitato per i diritti dell’uomo può esaminare le comunicazioni nelle quali uno Stato parte assuma l’inadempimento degli obblighi del Patto da parte di un altro Stato. Il Comitato esercita all’uopo le funzioni d’inchiesta e può designare, col preliminare consenso degli Stati interessati, commissioni di conciliazione ad hoc, allo scopo di giungere ad una soluzione amichevole della questione, fermo il rispetto e la tutela dei diritti riconosciuti nel Patto medesimo. Il Protocollo facoltativo, invece, abilita il Comitato all’esercizio di una serie di facoltà, tra le quali quelle di: 1) esaminare comunicazioni provenienti da cittadini che pretendano essere stati vittime di violazioni commesse da uno degli Stati parte del Protocollo, in ordine ad uno qualsiasi dei diritti enunciati nel Patto; 2) formulare raccomandazioni di carattere generale; 3) promuovere l’adozione di misure internazionali tese a coadiuvare gli Stati parte nella graduale ed effettiva attuazione dei diritti enunciati nel Patto. Nell’ambito di quest’ultima prerogativa, può iscriversi l’iniziativa, già intrapresa da parte dello stesso Comitato, volta a proporre una lettura reinterpretativa dell’articolo 6 del Patto sui diritti civili e politici, disciplinante la tutela del diritto alla vita umana, iniziativa destinata a divenire oggetto delle riflessioni e delle considerazioni critiche che seguono.

Detto articolo dispone, nel primo comma, che: “Il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve essere protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita”.

Ebbene, l’interpretazione di un trattato internazionale o di una sua norma, come si sa, consiste nella determinazione del significato esatto da attribuire alle espressioni utilizzate dalle parti nel testo, al fine di risolvere le eventuali controversie nascenti in sede di applicazione del trattato  medesimo. L’interpretazione dei trattati internazionali è disciplinata dalla Convenzione di Vienna del 1969, sul diritto dei trattati, agli articoli 31, 32 e 33, norme che assurgono a fondamento del diritto consuetudinario esistente in materia e che prevedono, tra le altre cose, che un trattato debba essere interpretato con metodo oggettivo, in buona fede, secondo il senso ordinario da attribuire ai suoi termini, nel loro contesto ed alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato stesso. A dire che nell’interpretazione non ci si può discostare dal testo letterale e dalla volontà, espressa dagli Stati contraenti, nell’oggetto e nello scopo del trattato (interpretazione teleologica), ovvero non si può attribuire al testo alcun contenuto che sia diverso dal senso che è reso palese dalle parole che lo compongono e che consegue dai rapporti di connessione logica tra le varie parti del testo medesimo e che deve armonizzarsi con l’oggetto e lo scopo suoi propri. Nell’ambito di tale metodo poi, i lavori preparatori acquistano una funzione sussidiaria, ma essenziale al fine di confermare un’interpretazione già desumibile, in certa misura, dalla lettera del testo stesso.

Ebbene, dal momento che nella Dichiarazione del 1948 non viene definita chiaramente la questione dell’identificazione esatta del soggetto cui attribuire la titolarità dei diritti ivi contemplati –sebbene nel Preambolo si designi come tale ogni “membro della famiglia umana”,  nell’articolo 1 si precisi che: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti e negli articoli 2 e 3 si parli rispettivamente di “persona” (come soggetto di diritti in genere) e di “individuo” (come soggetto titolare del diritto alla vita)– può essere di una qualche utilità, proprio muovendo da un’analisi attenta di alcuni aspetti e momenti dei lavori preparatori, tentare di chiarire i limiti dell’attribuibilità della categoria di “persona”.

L’essenza dei diritti fondamentali della persona umana e, tra questi, del diritto primario alla vita, consiste da sempre nel fatto che essi non possono essere né concessi né derogati da alcun potere politico, dacché fondati non su un atto di umana volontà, ma in ultima analisi nella stessa natura e dignità dell’uomo. Fin dall’antichità precristiana era chiaro, infatti, che la democrazia può esistere come tale soltanto se la maggioranza rispetta certe premesse basilari dell’ordinamento sociale, tra le quali appunto i principi del diritto, ovvero i diritti inviolabili che in essi trovano il loro fondamento. Non a caso, già il diritto romano considerava come un essere o individuo umano il concepito non nato (il nasciturus) e, come tale, era definito soggetto di diritti, potendo essere destinatario di beni testamentari. Così, il principio di considerare soggetto di diritto il concepito non nato è stato accolto, lungo i secoli, in molti codici costituzionali e civili di aree geografiche e culturali diverse, non soltanto del mondo latino o di influenza latina (Italia, Spagna, Argentina, Brasile, Uruguay, Perù, Cile, ecc.), ma anche di quello germanico (cfr. per esempio la relativa  sentenza della Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca, del 28 maggio 1993).

C’è stata dunque nel mondo, fino alla metà del secolo XX, una sostanziale omogeneità legislativa in ordine alla tutela della vita umana, anche del concepito non ancora nato, tanto che sia nella sfera del diritto romano-germanico, sia in quella dei sistemi di common law, l’aborto e l’eutanasia sono stato sistematicamente proibiti perché considerati delitti. E se è vero, come precisato sopra, che nella Dichiarazione del 1948 non fu affrontata prescrittivamente la questione tanto dell’attribuzione della titolarità della dignità “personale”, quanto quella connessa del riconoscimento della titolarità del diritto alla vita, non può negarsi che, ricostruendo le complesse vicende che occasionarono la stesura definitiva di siffatto testo, un ruolo determinante, ai fini della definizione dei contenuti normativi inerenti gli aspetti eticamente più complessi e dirimenti, ebbero una serie di intellettuali, in specie latinoamericani, la cui formazione culturale, filosofica ed umanistica rinviava univocamente ad una ben determinata tradizione, scuola, cultura della vita. Così, quando la Commissione dei diritti umani, costituita tenendo conto delle diversità politiche e culturali dei suoi membri e presieduta da Eleanor Roosevelt, incaricò il direttore dell’Area dei diritti umani dell’ONU, l’avvocato canadese John Humphrey, di preparare una prima bozza, venne naturale considerare alcuni codici sui diritti fondamentali dell’uomo che erano stati preparati proprio da alcuni Paesi latinoamericani, tra i quali i lavori di Panama e Cile, i cui testi furono assunti come modelli di riferimento ideale nella messa a punto di tutta la disciplina relativa alla sfera dei diritti sociali ed economici. La ragione di una simile opzione preferenziale si dovette al fatto che tali modelli offrivano una sintesi efficacissima delle diverse tradizioni culturali e filosofiche rappresentate nell’assise. Si trattava infatti di riuscire a conciliare la prospettiva influenzata dalla retorica lockeana, libertaria e contrattualista, che aveva avuto nella Rivoluzione americana il momento di massima espressione e che trovava ancora nei pensatori dell’area anglosassone approvazione e consenso larghi, con quella dell’area continentale, maggiormente propensa a dare enfasi a principi quali l’uguaglianza e la giustizia sociale, valori dei  quale lo Stato doveva divenire propugnatore e difensore. Erano queste le basi per la fondazione di una visione del diritto naturale completamente scevra da qualsiasi implicazione metafisica e unicamente fondata su una tradizione giuridica, di ispirazione aristotelica, che deduceva i diritti naturali e la legge naturale dalla razionalità umana; visione che sarebbe poi transitata, come detto, nelle Carte fondamentali dei neonati Stati latinoamericani e che sarebbe assurta a modello di riferimento essenziale nella stesura di quella che sarebbe stata la primigenia bozza della Dichiarazione universale, il cui nucleo dispositivo veniva così preservato dalle ideoleogie tanto dell’individualismo libertario, come del collettivismo sovietico (M. A. Glendon).

Dunque, determinante pare essere stata l’influenza del pensiero giusnaturalista, aristotelico-tomista, laico e razionalista, nell’individuazione dei diritti da contemplare e proteggere nella Dichiarazione e nella messa a punto dei rispettivi contenuti normativi. Ebbene, secondo la filosofia tomista, la persona è una sostanza individuale di natura intellettuale, capace di giudizio morale, di deliberare e padroneggiare cioè gli effetti delle sue proprie azioni. Questa definizione boeziana, sarà ripresa da San Tommaso per il quale l’individuo si trova «in omnibus generibus», ma «in substantiis rationalibus» si trova «quodam specialiori et perfectiori modo», porque los individuos racionales «habent dominium sui actus; et non solum aguntur sicut alia, sed per se agunt». L’uomo è pertanto sia un individuo, sia una persona: come individuo è una parte della natura e della società, come persona è un tutto, assolutamente superiore tanto alla natura quanto alla società (J. Maritain).

Quest’ordine è intrinsecamente buono e ragionevole, perché naturale; esso dunque può e deve essere colto nella forma di quelle proposizioni normative che orientano verso scelte, individuali e sociali, di promozione e rispetto del medesimo buon ordine, quelle proposizioni direttive rilevanti che chiamiamo leggi. La realizzazione umana integrale, che è il bene di tutte le persone e di tutte le comunità umane, unitamente e sincronicamente considerati, è il supremo fine della legge umana. Alla luce ciò, l’uomo dovrebbe scegliere e volere quelle e solo quelle opzioni la cui realizzazione è compatibile con l’obiettivo della realizzazione umana integrale, che, ripetiamo, è il bene di tutte le persone, considerate sia come singoli, che come comunità (J. Finnis).

Il nostro “essere”, infatti, è sempre un “essere con”, un essere comunitario. Il dato meramente empirico di detta orizzontalità, riceve un significato più profondo mediante un’analisi di tipo fenomenologico, che mostra come la riflessione dell’ “io” su se stesso, comporta sempre il riconoscimento della presenza di un “altro”. La relazionalità empirica, provata fenomenologicamente, poggia dunque sulla parità ontologica delle persone, che è poi la parità nel conseguibilità, e non del conseguimento effettivo, dei beni fondamentali, per cui nessun uomo può negare la dignità di un altro senza negare al contempo la sua propria dignità (S. Cotta).

L’attacco contro il diritto alla vita inerente la dignità di ogni uomo, in quanto dignità personale  riconoscibile ad ogni membro della famiglia umana, indipendentemente dal grado del suo sviluppo e della sua affermazione come soggetto autonomo, si radica in primo luogo in quella cultura che nega la distinzione essenziale fra uomo ed animale, a causa di una concezione evoluzionista, fisicista, biologista della medesima vita umana. Una seconda ragione per rifiutare il diritto di ogni essere umano alla vita personale risiede nella riduzione dell’uomo all’insieme delle sue performance personali, assenti negli embrioni e in molti altri esseri umani in condizione di disabilità grave. La posizione attualista e la riduzione della persona alla sua attività cosciente sono strettamente legate anche ad una terza ragione addotta per negare il diritto universale alla vita: l’introduzione di una distinzione fra essere umano e persona umana, concedendo in tal senso l’attributo di persona ai soli esseri umani coscienti capaci di agire come persone, e dunque negando l’attributo di persona ai neonati e alle persone in stato di permanente incoscienza, come pure ai cosiddetti morti cerebrali. Altre negazioni dell’universalità della dignità umana e del diritto alla vita si basano, infine, sul disconoscimento della legge naturale e dei valori e dei diritti umani fondamentali che si fondano sulla natura dell’essere umano, accettando quali fonti del diritto solo le leggi positive implementate dagli ordinamenti statuali (J. Seifert).

L’antidoto contro quest’arrembante mentalità che nega il diritto alla vita di alcuni essere umani sta proprio nel riconoscimento pubblico e giuridico della dignità personale di ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale. Come nella storia, l’abolizione della discriminazione tra liberi e schiavi, tra bianchi e neri, tra uomini e donne, ha segnato un passo avanti nelle conquiste di civiltà di nazioni e popoli, di Istituzioni e Stati, allo stesso modo occorrerà superare la discriminazione tra esseri umani nati e meramente concepiti, e superarla giuridicamente, perché la legge, oltre ad essere strumento di coazione, è e rimane un potente deterrente con una radicale e sociale funzione pedagogica. Occorre poi ampliare siffatto discorso alle persone le cui condizioni di vita sono tali da renderne auspicabile il porvi quanto prima fine (C. Casini).

La sfida è dunque primariamente culturale: come il feto non è solo un corpo vivente privo di dignità, allo stesso modo non lo è la persona che a causa di una patologia o di altra ragione si vede nella condizione di non poter più espletare le funzioni più elementari del vivere. Non possiamo chiedere al diritto di legittimare una mentalità che si arroghi il potere di distribuire patenti di dignità a seconda delle circostanze e della pretesa qualità o livello di sviluppo della vita di un soggetto. Una delle principali conquiste della modernità sta proprio nel fatto di aver arginato, con dichiarazioni solenni di principio e carte costituzionali, l’arbitrio del potere politico in tema di attribuzione della titolarità del diritto alla vita e della dignità personale. Il potere pubblico deve allora limitarsi a riconoscere, non pretendendo di attribuire, il diritto alla vita, non potendo assolutamente normare su ciò di cui non dispone minimamente.

Sorprende dunque che il Comitato per i diritti umani stia tentando di legittimare letture dell’articolo 6 del Patto finalizzate a sollecitare i legislatori nazionali perché dispongano gli interventi necessari a rendere agevole, senza rischio, in una parola senza limiti, l’accesso tanto all’aborto come all’eutanasia. E’ questo il portato diretto di un’impostazione culturale che identifica la dignità personale dell’uomo con la sua capacità di compiere scelte autonome. Ma la mistica dell’autonomia assoluta esclude da ogni possibile considerazione proprio quei soggetti che non sono in condizione di proclamarsene fattualmente titolari, ovvero i soggetti più deboli, sacrificando ogni limite all’esercizio indiscriminato di questa facoltà sull’altare della realizzazione personale, dell’affermazione individuale, che nulla ha a che vedere con il bene integrale umano e con la sua intrinseca dimensione orizzontale cui abbiamo accennato innanzi.

Può essere illuminante, a conclusione di questo lungo iter dottrinale, addurre qualche ulteriore elemento a conferma del fatto che il diritto, lungi dall’avere una origine meramente storico-culturale, radicata magari nell’esercizio indiscriminato dell’arbitrio di un dato potere politico, deve obbedire, meglio, conformarsi a delle dimensioni immanenti alla natura stessa dell’essere umano, non potendo avere affatto, e smentendo Kelsen, qualsiasi contenuto.

Con la sentenza n. C-34/10 pronunciata il 18 ottobre 2011, la Corte Europea di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla nozione di “embrione umano”, in materia di brevettabilità di procedure tecno-scientifiche che implicavano la distruzione di embrioni umani, così disponeva: “Costituisce un embrione umano qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia indotto a dividersi e a svilupparsi” (punto n. 38 della sentenza). Nessun brevetto può essere concesso –continuava la Corte– a procedure che utilizzino embrioni umani o che, comunque, ne presuppongano la preventiva distruzione. Si tratta di una decisione che ribadisce con forza la piena dignità dell’embrione umano e il suo diritto ad essere tutelato. Il suo diritto a non essere oggetto di brevettabilità rimanda sul piano antropologico al suo valore ineludile, inalienabile, imprescrittibile de indisponibile. A dire che la sentenza fa derivare la contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume, e dunque la non brevettabilità, da un giudizio negativo inerente proprio la soppressione della vita umana a partire già dall’incipiente fase embrionale, in qualunque modo l’embrione sia stato concepito, e ciò proprio in virtù della dignità, ontologicamente personale che ad esso si deve riconoscere.

Sarebbe quanto mai auspicabile, dunque, che il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, prendendo spunto da una simile impostazione, ripensasse la proposta formulata di addivenire ad una rilettura dell’articolo 6 del Patto, soffermandosi piuttosto a considerare da un lato l’origine puramente ideologica di siffatte pressioni politiche, che puntano a legittimare e a positivizzare posizioni culturali parziali scambiate per soluzioni volte a favorire progressi civili, e dall’altro l’oblio di quell’orizzonte metafisico in cui sempre inquadrare la trascendente dignità personale dell’essere umano, oblio che siffatte assunzioni ideologiche patentamente sottendono.

Antonio Casciano, PhD
“Fondazione Ut Vitam Habeant”

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