Cure palliative: considerazioni a margine del convegno promosso dalla PAV

Giovedì scorso, 1 marzo, si è concluso in Vaticano il Congresso internazionale dedicato al tema delle Cure Palliative organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita. L’importante simposio ha visto la partecipazione di 390 esperti, provenienti da 38 Paesi, le cui conclusioni sono state consegnate ad un Libro Bianco di raccomandazioni che, «destinato ai diversi gruppi di stakeholder coinvolti nell’organizzazione, promozione e sviluppo delle cure palliative», intende diffondere la relativa cultura nel mondo. Il lavoro di programmazione, di coordinamento e di sintesi degli orientamenti emersi e dei contributi offerti nel corso di questa tre giorni è toccato al gruppo PAL-Life che, costituito in seno alla PAV con il fine di accrescere la consapevolezza sociale e culturale dell’esistenza delle cure palliative, promuove iniziative di dialogo e di cooperazione tra i soggetti variamente interessati nello sviluppo e nell’implementazione delle stesse. L’urgenza di una riflessione sul tema che fosse insieme articolata nei contenuti e schematica nelle conclusioni, si è evinta, tra l’altro, da una serie di risultanze statistiche documentanti l’esistenza, ad oggi, di oltre 40 milioni di persone nel mondo bisognose a vario titolo di cure palliative, dato destinato a crescere a motivo dell’invecchiamento crescente della popolazione globale e della persistenza e diffusione in tutti i continenti delle malattie croniche e degenerative.

Ebbene le raccomandazioni finali raccolte nel Libro Bianco accennano ad una serie di ambiti nei quali sarebbe auspicabile intervenire al fine di potenziare la diffusione della cultura, della domanda di accesso e dell’erogazione effettiva delle cure palliative. Questi ambiti spaziano dai responsabili politici dei singoli Stati e degli organismi internazionali, chiamati ad adottare politiche che consentano l’accesso universale alle cure palliative, in particolare per i pazienti con malattie croniche progressive prima della morte, alle università, il cui compito sarebbe invece di provvedere alla formazione di operatori sanitari (medici, infermieri, farmacisti, assistenti sociali) per mezzo di corsi universitari obbligatori, agli operatori sanitari, i quali «dovrebbero ricevere una certificazione adeguata alla propria professione e al grado di coinvolgimento nelle cure palliative, partecipando altresì alla formazione continua per sviluppare le competenze richieste», agli ospedali e alle altre istituzioni sanitarie, chiamati ad «offrire a costi accessibili i farmaci di base per le cure palliative, in particolare ai farmaci oppiacei come la morfina, inserita nell’elenco dei farmaci essenziali dell’OMS», ai mass media, che, insieme alle associazioni dei pazienti, dovrebbero essere in prima linea «nella creazione di una cultura della consapevolezza intorno alla malattia avanzata e al ruolo delle cure palliative durante tutta la malattia», infine alle istituzioni religiose, chiamate a «sostenere l’inclusione dell’assistenza spirituale nelle cure palliative, ad assicurare lo sviluppo di assistenti spirituali o cappellani, [garantendone] la sostenibilità in tutti i contesti sanitari». Queste le conclusioni del poderoso sforzo riflessione svolto in queste giornate. Qualche breve spunto di considerazione critica riguardo ad esse.

L’immagine che prepotente si insinua nella mente, con automatismo inesorabile, quando parliamo di “cure palliative” è quella del paziente alle prese con lo stadio terminale di una malattia. Ebbene, un approccio autenticamente personalista –che si predilige in questa sede– a qualsiasi questione che presenti risvolti bio-eticamente sensibili e che non voglia ridursi a una sterile e supina professione ideologica, implica sempre la necessità di calarsi nella contingenza del vissuto individuale, nella complessità della concreta esperienza di vita del paziente, per evidenziarne la problematicità esistenziale alla luce di un’escatologia che ne proclami la singolarità unica ed irripetibile. Quando dunque un approccio simile ci informa dell’esistenza di una vita umana ormai stretta in una spirale di sofferenza che nessun rimedio può interrompere o contenere, e quando a questo si aggiunge l’inefficacia delle terapie e la prospettiva scientificamente certa di una fine giudicata imminente, è lo stesso buon senso, proprio della pratica medica classica, a venire in nostro aiuto, da un lato opponendo all’eventuale agire, ulteriore ed “ultroneo” del medico, il divieto dell’accanimento terapeutico, e dall’altro prospettando la soluzione dell’accompagnamento alla morte per mezzo di una pianificazione accurata delle soluzioni palliative appunto. Nella trasparenza dunque dell’imperativo che impone il rispetto assoluto della dignità personale di ogni uomo e che chiede altresì di incarnarsi nella concretezza pulsante del suo vissuto esistenziale, diviene possibile argomentare il rifiuto fermo ad ogni forma di accanimento terapeutico: rispettare la persona umana nella sua dignità significa esattamente prendere atto, in maniera scientifica, del fatto che il processo del vivere stia volgendo inesorabilmente a termine, significa cioè accettare i limiti fisici della condizione umana ed anche la morte che ne può derivare, non smettendo di offrire al paziente e a quanti lo assistono ogni forma di cura e sostegno possibili. E questo è stato esattamente il punto cardine del Messaggio che il Segretario di Stato ha inviato, a nome del Santo Padre, al Presidente della PAV nella giornata di inizio dei lavori del Convegno menzionato all’inizio: la necessità di occasionare un ritorno, si legge in esso, alla «sapienza della finitezza […], la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del “fare” sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche il condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita». Come a dire che solo nella consapevolezza del comune destino che attende ogni uomo, nel tramonto cioè che precede la notte della morte, il tramonto della malattia, spirituale prima ancora che corporale, diviene possibile sperimentare la prossimità ristoratrice dell’offerta incondizionata del sé nel “prendersi cura”, declinando operativamente il paradigma dell’etica della cura a partire proprio dall’esperienza della condivisione empatica della condizione di sofferenza del paziente e propiziando l’insorgere di quella dimensione dialogica essenziale, tra le parti coinvolte nel dramma della malattia, che si chiama empatia. Lo sguardo empatico vuole acquisire emotivamente la realtà del sentire altrui, impregnarsi dell’esperienza di un’alterità che sollecita un’attenzione capace di immedesimazione interiore, oltre la mera com-passione, come coinvolgimento profondo dell’animo: «Nell’empatia colgo l’altro non solo come corpo, ma come corpo vivente, come essere vivente: oltre al corpo, colgo il soggetto che vi abita, colgo l’altro come persona spirituale e scopro che i suoi gesti, le sue parole sono motivati dalla sua struttura personale».

La logica profonda che dovrebbe ispirare ogni approccio di tipo palliativo è esattamente quella che nasce dallo sguardo empatico rivolto alla persona malata che nel suo stato interroga la coscienza e sollecita un’attenzione premurosa, nella misura in cui introduce al dramma di un universo irripetibile, quello dell’altro, costretto da un’esperienza che richiama alla mente una condizione limite, quella della malattia, che potrebbe interessare anche le nostre esistenze: «Le cure palliative non assecondano –aggiungeva ancora il Cardinale Parolin– questa rinuncia alla sapienza della finitezza, ed è qui un ulteriore motivo dell’importanza di queste tematiche. Esse indicano infatti una riscoperta della vocazione più profonda della medicina, che consiste prima di tutto nel prendersi cura: il suo compito è di curare sempre, anche se non sempre è possibile guarire».

L’arte medica è da sempre consistita nella pratica clinica di curare il paziente, di averne cura, di trattare il malato e la sua malattia. Lo stesso codice di deontologia medica, adottato dalla Federazione dell’ordine dei medici nel 2014, precisa che «doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna». La relazione tra medico e paziente appare, in ogni momento del suo dispiegarsi, informata a l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e su un’informazione comprensibile e completa, vale a dire «sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostiche-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze». Ebbene, l’espressione più alta, la declinazione operativa più appariscente di questa che potremmo chiamare “deontologia della cura” è rinvenibile proprio nella pratica delle cure palliative, in quel novero ampio cioè di interventi terapeutici, diagnostici ed assistenziali rivolti sia alla persona malata, sia al suo nucleo familiare, finalizzati a migliorare il più possibile la qualità della vita di quei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici. Esse si possono somministrare precocemente, insieme alle terapie vere e proprie, col fine di prolungare la vita del paziente, prevenendo, se possibile, o trattando al meglio le complicanze cliniche che causano la sofferenza fisica. Ora, i progressi fatti in questa branca della medicina, un tempo destinataria di una considerazione, anche didattica, assolutamente residuale e riduttiva, permettono di ben controllare l’assoluta maggioranza dei sintomi associati ad una patologia, anche terminale.

Chiarito dunque da un lato come i trattamenti palliativi possono a ragione pensarsi come l’espressione più alta e qualificante dell’arte medica, che deve continuare nel suo sforzo di curare anche quando l’obiettivo di una guarigione piena si pone al di là delle sue effettive possibilità di intervento, e dall’altro come essi non hanno a che fare solo col trattamento del dolore agonizzante, ma con tutta una serie di accorgimenti volti ad offrire il migliore accompagnamento possibile, sia fisico che psichico e spirituale, al paziente ed ai suoi familiari, si comprende altresì come dal Libro Bianco ci si sarebbe aspettata una considerazione diversa di una serie di aspetti che pensiamo assurgono ad autentici cardini della concezione cristiana tanto della vita, come della malattia.

Intanto non pare avrebbe stonato riportare una menzione esplicita a quella che il cardinale Parolin, nell’indirizzo di saluto summenzionato, ha definito come “sapienza della finitezza”, a quella antropologia del limite cioè nella cui prospettiva dovrebbe sempre collocarsi l’essere umano, e non solo quello illuminato dal dono della fede. La difficoltà di scorgere un senso nell’esperienza della malattia e della morte, l’incapacità di giungere a considerare queste dimensioni come parte integrante dell’esperienza terrena dell’essere umano, rende quest’ultimo debole, in ultima analisi vulnerabile, e tale vulnerabilità può condurre a due atteggiamenti opposti e parimenti condannabili: la scelta eutanasica o l’accanimento terapeutico. Eppure, come efficacemente ricordava Papa Benedetto XVI nell’Enciclica Spe salvi, «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e il sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace a contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente, è una società crudele e disumana» (n. 38). Ebbene, una precisazione in tal senso sarebbe stata non solo auspicabile, ma necessaria, laddove si consideri che le spinte eutanasiche diventano pressanti proprio quando si insinua nella vita delle persone una visione utilitarista, una concezione esclusivamente qualitativa del valore della vita.

Allo stesso modo, sarebbe stato il caso forse di accennare alla sola forma di sedazione che il Magistero cattolico oggi è ancora in grado di riconoscere come moralmente accettabile, quella palliativa appunto. Un accenno al problema della sedazione sarebbe stato opportuno perché proprio dietro il ricorso a questa pratica spesso è facile rinvenire intenti e fini autenticamente eutanasici. La sedazione profonda permanente è eutanasica perché non volta ad alleviare il dolore, ma piuttosto ad occasionare una condizione permanente con cui si sceglie di spegnere, in maniera definitiva, anche se progressiva, la ragione e la volontà, provocando un sonno profondo che è difficile distinguere dalla morte. È il genere di cure palliative che attenta al principio della sacralità della vita umana, nella misura in cui si accompagna al rifiuto delle cure mediche necessarie, anche di quelle più elementari, come l’interruzione prematura dell’idratazione e della nutrizione quando il corpo del paziente assimila ancora sostanze nutritive. Quando si effettua una sedazione palliativa in vista dell’interruzione della nutrizione e dell’idratazione, come fu per Eluana Englaro, o della ventilazione meccanica, come invece avvenne per Piergiorgio Welby, si concorre a determinare un atto pienamente eutanasico, anche se la morte del paziente non segue direttamente alla sedazione, bensì all’interruzione dei sostegni vitali citati innanzi. L’alterazione profonda e permanente della coscienza individuale è invece moralmente accettabile solo quando: 1) si tratta di un effetto collaterale, non direttamente perseguito dal medico, non intenzionale del trattamento del dolore agonizzante; 2) il dolore non è altrimenti trattabile; 3) il paziente trova che la sofferenza patita a causa della patologia sia insopportabile e degradante; 4) si è già nell’imminenza della morte del paziente, il cui decorso potrebbe eventualmente essere accelerato dalla somministrazione dei farmaci sedativi. In presenza di siffatte condizioni, si ritiene che la pratica della sedazione palliativa, ancorché profonda, perdurante e irreversibile, continui a contemplare i criteri propri dell’atto medico, e dunque è non solo moralmente lecita, ma in talune circostanze addirittura doverosa.

Infine crediamo sarebbe stato congruo, in occasione della redazione delle linee guida contenute nel Libro Bianco, accennare non solo al ruolo proprio che la Chiesa, come istituzione umana e come Corpo mistico di Cristo, è chiamata a svolgere per accompagnare al meglio il malato e in particolare il morente, ma anche ai sentimenti che dovrebbero animare il cristiano di fede autentica dinanzi al tema della sofferenza e del dolore. Questi non dovrebbe mai perdere di vista il valore redentivo e riparativo della sofferenza associata alla Passione di Cristo che ha trovato il suo culmine nell’oblazione cruenta della Croce: «E quest’olocausto, Cristo lo vuole per amore, «per amore verso suo Padre e per amore verso gli uomini. Non vi è amore più grande. In questo momento la carità di Cristo, che è ancora viator supera l’abisso che separa il finito dall’infinito, è condotta al grado di perfezione suprema e insuperabile (asintotico)». L’uso al presente del tempo verbale da parte di Maritain, ci parla sia di un tempo cronologico, quello del sacrificio di Cristo, il cui compimento ultimo “è gia e non ancora”, che continua cioè a consumarsi nelle pieghe dell’eternità che abitiamo e che ci abita, sia di una perfezione che è un limite insuperato ed insuperabile cui tendere incessantemente come agenti morali, come esseri spirituali. Nessun uomo dovrebbe essere indotto a scegliere o cercare la sofferenza per se stessa, ma la possibilità di com-partecipare all’opera cosmica di salvezza realizzata dall’Uomo-Dio, la possibilità di com-patire con Cristo per l’umanità che il Padre ha voluta redenta nel Suo sacrificio, rimane un’opzione aperta fino alla fine dei tempi, una porta escatologica di accesso alla salvezza che è insieme universale, unica e definitiva, perché ultimamente inerente la dimensione soteriologica dell’esistenza umana.

Includere siffatte considerazioni, inserendole non tra le raccomandazioni, come se si trattasse di direttive di orientamento tra le altre, ma tra le premesse ineludibili alle raccomandazioni medesime, a mo’ di principi che il Magistero della Chiesa considera da sempre non negoziabili perché giudicati universalmente validi, avrebbe aiutato i lettori a contestualizzare meglio i contenuti del Libro Bianco nel seno di un’antropologia autenticamente umanista perché essenzialmente cristiana, e contribuendo altresì a fugare il rischio di letture riduzioniste, come di derive tecniciste, sempre in agguato nella pratica medica. Il riduzionismo tecnicista è esattamente il rischio maggiore nel quale possono incorrere gli stessi operatori sanitari addetti alle cure palliative, anche se animati da una fede sincera, giacché il potere eccendente che la tecnica affida all’uomo, rischia  sempre di trasformarsi nelle sue mani, rese imprudenti dall’ebbrezza di conquiste sorprendenti e sempre nuove, in un potere illimitato sull’uomo, un potere da cui l’uomo ha dunque il dovere di guardarsi e proteggersi: «Per amore dell’autonomia umana, della dignità, la quale richiede che noi possediamo noi stessi e non ci facciamo possedere dalle nostre macchine, dobbiamo porre la corsa tecnologica sotto controllo extratecnologico», sotto il controllo della vigile ed ininterrotta riflessione morale ultimamente fondata su una concezione metafisica della persona e della sua dignità ontologica.

Antonio Casciano

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