L’obiezione di coscienza in Bioetica

M. Casini,Obiezione di coscienza(parte etica), in E. Sgreccia-A.Tarantino (sotto la direzione di), Enciclopedia di Bioetica e Scienza giuridica, Vol. IX, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, pp. 561 – 587.

Sommario: 1. Nella storia la radice etica dell’obiezione di coscienza: la libertà religiosa. – 2. L’obiezione di coscienza al servizio miliare. – 3. La forza unitiva della coscienza. La questione antropologica e il fondamento del diritto in relazione all’obiezione di coscienza. – 4. La coscienza e la legalità. – 5. L’obiezione di coscienza nella deontologia professionale. – 6. Applicazioni concrete dei principi. – 7. Ulteriori ambiti e situazioni in cui è messo alla prova il fondamento etico dell’obiezione di coscienza. Cenni. – 8. L’obiezione dei popoli.

Nella storia la radice etica dell’obiezione di coscienza: la libertà religiosa. – L’espressione “obiezione di coscienza”nella sua definizione più ampia sta ad indicare – come suggerisce l’etimologia latina del termine“obiectio”, opposizione – il rifiuto posto da un soggetto nei confronti di un ordine o di una norma i cui contenuti e/o le cui finalità sono ritenute inaccettabili dalla propria sensibilità morale. Si può anche affermare – sempre rifacendosi alla radice latina “obicere”, gettare contro – che nel concetto di obiezione di coscienza vi è l’idea di una “contrapposizione”, di un “rifiuto”: essa è generalmente intesa, infatti, come il rifiuto di tenere un comportamento imposto da una legge o da un comando dell’autorità, considerato in contrasto con una norma – di contenuto opposto a quello che non si vuole osservare – che trae la propria forza dai convincimenti interiori (religiosi, morali, filosofici, politici) di chi obietta.È chiaro, dunque, che l’obiezione di coscienza rimanda a una dimensione normativa appartenente ad un ordinamento di valori ulteriore, superiore, diverso e maggiormente obbligante, rispetto alla dimensione normativa che fa capo all’ordinamento giuridico o comunque sociale.

            L’espressione “obiezione di coscienza” evoca oggi, ad immediata prima lettura, il tema del rispetto dovuto alla vita nascente e morente. Essa richiama tutte le controversie che avvolgono questi temi e ricorda tutti gli accesi e articolati dibattiti sull’interpretazione delle norme giuridiche che prevedono, o dovrebbero prevedere, l’obiezione. In sostanza, l’obiezione di cui oggi molto si discute è l’obiezione in ambito sanitario. Di questa, dunque, tratterà diffusamente il presente contributo.

            Tuttavia, per scoprire la radice etica dell’obiezione di coscienza è opportuno ripensarne il percorso storico.

Un fugace sguardo al passato non esime dal ricordare alcuni classici esempi di rifiuto di ottemperare un comando dell’autorità[1]: già la civiltà ellenica ci ha trasmesso il ricordo di personaggi storici o letterari per i quali l’osservanza di un imperativo etico o religioso era preminente, antecedente e maggiormente vincolante, rispetto all’ossequio all’autorità politica. La memoria va subito alla figura sofoclea di Antigone, coraggiosa fanciulla, che affrontò consapevolmente la morte pur di seppellire il fratello Polinice ucciso, nonostante il divieto stabilito dall’editto del tiranno Creonte. Un altro noto e significativo riferimento è il rifiuto di Socrate – tramandato dall’Apologia platonica – di ubbidire ad un ordine del governo oligarchico dei Trenta, disubbidienza che avrebbe forse pagato con la vita se quel governo non fosse stato presto abbattuto. A tutti è nota, inoltre, la testimonianza resa in epoca rinascimentale, dal grande umanista cristiano, Thomas Moore, condannato a morte dal re d’Inghilterra Enrico VIII, di cui era stato leale e stimato collaboratore, proprio per non aver voluto tradire la voce della propria coscienza. Soprattutto,è il martirio dei cristiani dei primi tre secoli della nostra era che è stato una continua testimonianza dell’obiezione di coscienza. Come è noto, il culto degli dei pagani costituiva la religione di Stato dell’antico impero cristiano. Lo stesso imperatore doveva essere considerato una divinità. Non mancarono episodi in cui per evitare una morte spesso terribile (“ad bestias”), sarebbe stato sufficiente bruciare l’incenso agli dei pagani, riconoscere la sacralità dell’imperatore o abiurare alla fede cristiana[2]. Il comportamento che pur non veniva qualificato con il termine tecnico di “obiezione di coscienza” e che non poteva essere inquadrato in una normativa giuridica, mostra che il rifiuto delle norme positive in nome di un valore superiore può essere avvertito indipendentemente dal diritto e che la dimensione religiosa dell’esistenza ha dato ampiamente sostanza a quella che oggi noi chiamiamo obiezione di coscienza. È un dato da non dimenticare. Di fatto la riflessione sulla obiezionedi coscienza tocca il cuore della libertà religiosa e, a sua volta, la libertà religiosa, secondo un’intensa espressione di Giovanni Paolo II,è “fonte e sintesi” di tutti gli altri diritti[3].

            Viene in mente una sentenza della Corte Costituzionale italiana (n. 467 del 1991) che con riferimento al servizio militare, ha affermato che «delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione,non può darsi una piena ed effettiva garanzia[…] senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico». In definitiva, secondo la Corte, «la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e, quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale»[4].

Oggi, in tutti gli Stati c.d. “civili”, la libertà religiosa è solennemente garantita dalle leggi. Per l’Italia basti ricordare l’art. 19 della nostra Costituzione, dove si legge «tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».A livello europeo, l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ripete lo stesso pensiero: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare la religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione, individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti»[5].

            La libertà religiosa sembra essere dunque divenuta una conquista indiscutibile della modernità, con un pieno accordo tra la cultura civile e quella cristiana. Tra i molti documenti ecclesiali che si potrebbero citare ci sembra che il moderno pensiero cattolico sia sintetizzato nel punto 2 della dichiarazione del Concilio vaticano II “Dignitatis humanae”: «Questo Concilio dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, cosicché in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza. Il diritto alla libertà religiosa si fonda sulla stessa dignità della persona umana»[6].

            Purtroppo, questi principi che sembrano assolutamente condivisi  nella cultura occidentale, sono gravemente violati in molte parti del mondo. Giungono continuamente notizie di cristiani uccisi perché cristiani, arsi vivi, crocifissi, decapitati, seviziati[7]. È diventato particolarmente commovente il caso di Asia Bibi (Aasiyah Naurīn Bibi) madre cristiana di cinque figli, condannata a morte in Pakistan per blasfemia. Accusata da alcune donne musulmane di aver criticato Maometto nel corso di una discussione, Asia si trova in carcere da cinque anni. Il giudice che l’ha condannata, Narved Iqbal, è andato a trovarla nella prigione e le aveva promesso la libertà se ella avesse scelto di aderire alla religione musulmana. Secondo la testimonianza resa dal marito e da una figliadurante un convegno svoltosi a Madrid (17 – 19 aprile 2015) sulla libertà religiosa, ella avrebbe risposto: «Credo in Dio e nel suo amore infinito. Se il giudice mi ha condannato a morte a causa del mio amore per Dio, sarò orgogliosa di sacrificare per lui la mia vita»[8].

La storia dimostra che alla libertà religiosa si collega il diritto alla libertà di coscienza oggi giuridicamente riconosciutonei documenti più alti del pensiero giuridico moderno e nelle codificazioni conseguenti. A livello internazionale, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo(10 dicembre 1948) afferma che «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti»(art. 18).Analoga formulazione è ripetuta (art. 18) nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici (16 dicembre 1966)[9]. Si noti che la Convenzione sui diritti del fanciullo (20 novembre 1989) riconosce anche per il minore il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 14). La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981) all’art. 8, così come la Convenzione americana sui diritti umani (1969) all’art. 12, tutelano il diritto alla libertà di coscienza. A livello europeo, siala Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (1950)[10]all’art. 9, sia lagià ricordata Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000)all’art. 10, riconoscono la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Merita anche ricordare che la Corte europea dei diritti umani in più occasioni ha affermatoche gli Stati hanno il dovere di rispettare il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare come parte dell’obbligo di rispettare il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione espresso nell’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti umani[11].Con specifico riferimento alla bioetica va ricordata la Risoluzione del Consiglio d’Europa del 7 ottobre 2010 riguardante il diritto all’obiezione di coscienza nelle cure mediche legali che condanna ogni forma di discriminazione nei confronti degli obiettori: «Nessuna persona o ospedale o istituzione può essere obbligata o ritenuta responsabile o discriminata se rifiuta per qualsiasi motivo di eseguire o assistere un aborto, interventi di eutanasia o un altro atto che possa causare la morte di un feto o di un embrione»[12].

Per quanto riguarda la nostra Carta Costituzionale[13], è consolidata l’idea che la libertà di coscienza essa sia implicitamente contemplata nell’art. 2 che riconosce e garantisce “i diritti inviolabili dell’uomo”, negli articoli che disciplinano e tutelano la libertà e l’uguaglianza in materia di religione (artt. 3, 7, 8, 19, e 20) e nell’art. 21 che tutela la libertà di manifestazione del pensiero. È questo l’orientamento fatto proprio dalla dottrina, tanto che è stato scritto che dell’obiezione di coscienza nella Carta Costituzionale «manca solo il nome, non l’ammissione e la tutela»[14].

            L’origine religiosa dell’obiezione di coscienza non deve, però, corroborare l’errore diffuso di considerare l’obiezione nel campo sanitario una sorta di concessione agli scrupoli religiosi di una parte del personale sanitario. Più avanti questa opinione verrà contestata. Ciò che adesso preme sottolineare è che la libertà religiosa è stata evocata come humus dell’obiezione di coscienza, perché tale origine prova l’esistenza di una grave questione antropologica ad essa strettamente collegata: chi è l’uomo? Qual è il senso della sua vita? Nel territorio religioso vi è lo spazio per cercare risposte che non sono di poco conto. Quando la Corte Costituzionale giustifica l’obiezione di coscienza come difesa dell’ «intima e privilegiata relazione dell’uomo con se stesso» e  «regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione», allude alla presenza nell’uomo di un “oltre”, di un mistero che supera il toccabile e lo sperimentabile. Ha scritto il Concilio Vaticano II che «la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità»[15]. Se così è, la “relazione” di cui parla la Corte Costituzionale è in primo luogo quella con Dio ed è una relazione che determina il senso della vita del singolo. Essa attiene alla identità dell’uomo, alla ricerca di un suo significato. Come si vede, la garanzia di libertà intorno a questa ricerca investe la questione antropologica.

L’obiezione di coscienza al servizio miliare. – L’obiezione moderna, quella consacrata nel diritto positivo con riferimento all’esercizio della professione sanitaria, ha preso le mosse dall’obiezione di coscienza relativa al servizio militare, considerato dalla Costituzione italiana “sacro dovere del cittadino” (Art. 52) in un contesto in cui si rifiuta la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11). Alcuni giovani testimoni di Geova e alcuni giovani pentacostali da tempo erano stati condannati per essere stati renitenti alla leva militare allora obbligatoria, ma all’inizio degli anni ’60 anche alcuni giovani cattolici rifiutarono di indossare la divisa e perciò furono denunciati e condannati. Ne derivò un acceso dibattito a livello politico, etico e teologico, con processi per apologia di reato a carico di sacerdoti (Don Lorenzo Milani e Padre Ernesto Balducci)[16]. Fu coinvolto anche il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, perché – violando il divieto statale – fece proiettare il film del regista franceseClaude Autant-Lara “Non uccidere” (“Tu ne tueras point”, 1961) la cui sceneggiatura era basata su un reale fatto di cronaca militare[17].Il dibattito coinvolse il tema della pace, allora di grande attualità nel clima di equilibrio del terrore tra blocchi – economico-politico-militari – duramente contrapposti, in corsa per l’armamento atomico. Non è il caso di entrare nei dettagli di questa storia[18], sviluppatasi con l’introduzione di norme che prevedevano l’obiezione di coscienza rispetto al servizio militare (L.n. 772 del 1972[19] e L. n. 930 del 1998[20]) e conclusasi con la Legge 14 novembre 2000 che ha abolito la leva militare obbligatoria e l’ha sostituita con il servizio militare professionale[21].

            È molto importante sottolineare che, nonostante le contaminazioni politiche che attraversarono il dibattito, la ragione essenziale dell’obiezione fu il rifiuto di uccidere altri esseri umani; rifiuto avvertito come insuperabile anche nei casi in cuil’uccisione avrebbe potuto essere un’eventualità remota e/o avvenire in condizioni di possibile difesa sociale. In tempo di pace l’esercito è come una riserva di forza da utilizzare, e di fatto utilizzata, per operazioni di solidarietà alle popolazioni colpite da calamità naturali o per garantire la sicurezza dei cittadini in occasione di particolari pericoli. Interventi militari all’estero sono previsti, e di fatto sono avvenuti, soltanto in operazioni internazionalmente concordate per difendere la vita di popolazioni minacciate e con una presenza in grado di mantenere la pace, anche mediante interventi di solidarietà nei confronti di cittadini stranieri in condizioni di povertà estrema. Si pensi a quanto da anni accade nel Mediterraneo, dove una grande quantità di profughi provenienti dall’Africa viene sottratta alla morte conseguente a continui naufragi. Il precetto del “non uccidere” giustifica, dunque, non solo il rifiuto dell’atto che attualmente e certamente provoca la morte, ma anche il rifiuto di compiere azioni che soltanto in una remotissima eventualità possono contribuire a provocare la morte e nonostante che un tale rifiuto comporti il sottrarsi ad eventualità di segno opposto: il soccorso a popolazioni che si trovano in una emergenza tale da mettere a rischio la vita. L’obiezione militare è stata riconosciuta eticamente fondata per la particolare forza del precetto del “non uccidere”.

            Oggi non ha più senso l’obiezione di coscienza militare, ma la sua storia fornisce indicazioni per scoprire il fondamento di un’ulteriore obiezione di coscienza in discussione: quella sanitaria. Il rifiuto di causare la morte di un altro è connesso alla questione antropologica: chi è l’altro? Perché la sua vita merita rispetto? Ci sono delle condizioni?

La forza unitiva della coscienza. La questione antropologica e il fondamento del diritto in relazione all’obiezione di coscienza. – La dottrina dei diritti umani pensata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come garanzia di pace, giustizia e libertàin nome di principi universali – quindi validi in ogni tempo e in ogni luogo, precedenti ad ogni legge scritta e di essa parametri di giustizia e comprensiva del diritto alla libertà di coscienza -, rischia di crollare come un castello di sabbia se non è chiaro e solido il concetto di uomo quale titolare dei diritti. Se la sua dignità – parola che in se stessa implica la percezione di una grandezza che va “oltre” lo sperimentabile – diviene una qualità della vita, che può esserci o non esserci, invece che essere considerata l’essenza del vivere umano, allora anche l’obiezione di coscienza naufraga nel soggettivismo.

            Per questo, l’indagine sul fondamento etico dell’obiezione di coscienza implica che si consideri in via preliminare la questione dell’autoreferenzialità soggettiva o meno della coscienza. Tale dibattuta questione si sostanzia nel seguente interrogativo: agire secondo coscienza significa assecondare un’istanza meramente soggettiva, individuale e dunque arbitraria, oppure significa fare riferimento a un richiamo interiore che pone il soggetto in relazione ad un “ordinamento” che non è stato lui a darsi? In altri termini: la coscienza pur connessa alle persuasioni e alle convinzioni è o non è relata con un’alterità oggettiva che nella coscienza si riflette? Involucro dell’individualismo o porta d’accesso al fondamento dell’essere e a ciò che è più elevato ed essenziale? Riflesso del proprio io chiuso in se stesso o luogo della percezione di verità a cui il “proprio sé” è chiamato ad aprirsi?

            In questo contesto è opportuno anche ricordare che spesso, la parola “coscienza” viene utilizzata per mettere ai margini una questione ritenuta estranea alla dimensione politico-legislativa, venendo così ridotta a mera opinione personale priva di agganci con una realtà oggettiva. Infatti, solo per fare un accenno perché l’argomento richiederebbe più spazio e non è questa la sede per svilupparlo, all’espressione “questione di coscienza” viene fatto ricorso per estromettere dalla politica e dalle leggi il diritto alla vita dei non-nati. Come se la coscienza fosse lo spazio delle opinioni e delle valutazioni individuali che, in quanto tali, non possono fare testo nella cosa pubblica. Solo a modo di provocazione: diremmo che la tratta dei minori e lo sfruttamento del lavoro minorile è “questione di coscienza”, come a dire che le politiche nazionali e internazionali non sono tenute a occuparsi del diritto dei minori alla propria integrità psico-fisica e a tutelare il fanciullo contro ogni forma di oltraggio, maltrattamenti, brutalità, sfruttamento? In un certo senso, si può affermare che tutto è “questione di coscienza”, ma questo non deve essere un pretesto per strumentalizzare in alcuni casi la “coscienza” rendendola il regno dell’opinabile, al punto da escludere dall’attenzione pubblica tematiche che toccano la dignità della vita umana e i diritti umani fondamentali come quello alla vita[22].

            Insomma, la coscienza è il regno dell’opinabile o il luogo di una verità che deve essere scoperta? Rinviando a testi che hanno approfondito l’argomento, in questa sede accogliamo il significato “forte” di “coscienza”: la coscienza morale fa riferimento, infatti, alla “legge morale naturale”, ovvero a quell’insieme di valori e norme che sono iscritti nella natura ontologica dell’uomo e che gli indicano la via da percorrere per  raggiungere la sua perfezione, la sua “umanità piena”. In tal modo la coscienza morale svolge un’ “opera di sintesi” tra la legge morale naturale e la decisione morale nel singolo atto: è –  in altre parole –  quel  “tribunale” interiore che, dopo avere  valutato le caratteristiche della scelta e i valori in gioco, giudica quale sia l’azione che meglio garantisce l’autentica realizzazione dell’uomo. La coscienza è la «presenza percepibile e imperiosa della voce della verità all’interno dell’uomo stesso […] è il superamento della mera soggettività nell’incontro tra l’interiorità dell’uomo e la verità»[23], è il “sacrario” della persona, il luogo, cioè, dove si esprime la tensione fondamentale verso il bene e dove, quindi, ultimamente, viene verificato il senso della propria vita. Origene, scriveva: «L’anima dell’anima è la coscienza».

            Tanto poco la voce della coscienza costituisce una opinione individuale che, secondo la Costituzione Conciliare Gaudium et Spes (n. 16) essa è lo strumento unitivo tra gli uomini. «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato».

            Che la coscienza non sia interpretabile in termini di autoreferenzialità e chiusura è suggerito anche l’etimologia del termine coscienza (cum-scientia): l’originario e costituivo carattere cognitivo (scientia) e relazionale (cum) precede, fonda e sostiene la dimensione prescrittiva («fa il bene, evita il male»). La coscienza con le valutazioni prescrittive che ne derivano, è connessa all’intelletto che attinge alla conoscenza del vero, del giusto e del buono di cui la fonte è altra da sé.[24]

L’obiezione di coscienza si fonda, appunto, su questo legame profondo tra intelletto e verità da cui scaturiscono le proprie più profonde convinzioni. Per questo agire o costringere altri ad agire contro la propria coscienza è un atto grave.

            Questo “appello alla verità” non è però sempre immediatamente e nettamente percepibile in maniera univoca per tutti. È stato scritto che la coscienza non è un oracolo, ma un organo; un organo di conoscenza interna del bene e del male[25]. Un organo interno che ci appartiene come realtà a noi insita, ma  che – proprio come un organo – deve essere esercitata, formata, sviluppata, educata; altrimenti è soggetta ad atrofia, deformazione, disfunzionalità. Dall’importanza della coscienza e dal suo ruolo decisivo nel giudizio morale discende il dovere che ha ogni uomo di formare in modo adeguato la propria coscienza. La coscienza morale è dinamica ed evolutiva; essa può essere influenzata sia da diversi fattori (conoscitivi, interni ed emozionali, ambientali e culturali) sia dalle esperienze di vita. Sono note le distinzioni che portano a definire la coscienza:  1) vera o  falsa o erronea (il fattore conoscitivo può essere o meno conforme alla verità);  2) certa, incerta o dubbia (in rapporto al  grado di adesione al giudizio dato nella singola circostanza);  3) retta o non retta (se il giudizio è informato o meno al bene e alla verità)[26].

            Il motivo per cui l’uomo avverte di non dover agire mai contro la propria coscienza risiede  nella consapevolezza che l’adesione ad una coscienza vera, certa e retta è la strada per raggiungere la realizzazione piena della propria umanità: e, se la coscienza sbaglia, è compito dell’uomo sorvegliarla e guidarla verso la verità. Così, di fronte ad una legge positiva – quale  espressione  di alcune esigenze del bene comune e dei singoli in una determinata società e in un certo tempo – il soggetto può esercitare la libertà di coscienza, qualora di quella legge non condivida alcuni precetti ritenuti contrastanti con i suoi valori/norme di riferimento.

La coscienza e la legalità. Dopo aver sostenuto il primato della coscienza sulla legge scritta, paradossalmente è stata dimostrata la forza dell’obiezione proprio affermando il dovere della coscienza di rispettare la legge positiva. La soluzione di questo paradosso prova nel modo più solido il fondamento etico dell’obiezione di coscienza.

Ius iungit”: il diritto unisce. La comunità umana ha bisogno di una legge per essere comunità e non coacervo di individui. Prima ancora di essere precetto di comportamento individuale, il diritto è organizzazione di ente sociale (“ubi societas ibi ius; ubi ius ibi societas”). Per essere tale, esso deve essere certo, conoscibile e, perciò, guida all’azione. Altrimenti è il caos. È stato scritto che l’uomo è per sua essenza un ente sociale, bisognoso come tale di coordinarsi con gli altri uomini. La legge scritta, dunque, è in se stessa un dato positivo. Essa può contenere degli aspetti di ingiustizia e in ogni caso possono sussistere – e di fatto sussistono – pareri diversi su ciò che è giusto o ingiusto in una data situazione. Tuttavia, poiché l’organizzazione sociale è un bene, è dovere morale del singolo – entro certi limiti – rispettare e applicare la legge anche quando egli ne ritiene ingiusto qualche profilo. L’etica, dunque, esige il rispetto della legalità. Ciò è tanto più sostenibile in un sistema democratico che, per sua natura, dovrebbe portare a sintesi unitaria i pareri dei singoli a ciascuno dei quali è data una frazione, sia pure minima, di decisione attraverso il voto. Non c’è dunque spazio, anche dal punto di vista etico, per una obiezione di coscienza generalizzata, cioè per una giustificazione della disubbidienza ogni volta che il proprio giudizio sulla giustizia non coincida con quello della legge.

Si impone, però, un interrogativo: entro quali limiti il rispetto della legalità è un dovere etico? Per secoli la legge è stata il “comando del più forte”. Conseguentemente,la legge è stata assai spesso espressione dell’arbitrio e della prepotenza. Eppure, il desiderio di giustizia ha proposto, di volta in volta, nel corso della storia dei parametri di valutazione delle norme scritte. Nella nostra epoca si è affermato il principio di uguaglianza. “La legge è uguale per tutti”, è scritto in ogni aula di Tribunale. Eppure, la tragica esperienza del secolo scorso ha dimostrato che l’uguaglianza del trattamento legale non basta a realizzare la giustizia[27]. Le leggi razziali del nazismo venivano applicate in modo drammaticamente uguale a tutti gli ebrei. Non basta, perciò, un uguale trattamento per tutti a garantire la giustizia. Occorre qualcosa di più sostanziale. È “spuntato” così il concetto di dignità umana, per indicare l’uguaglianza in termini di valore di ogni essere umano. Tutto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo parte dal concetto di dignità, ripetuto in ogni ulteriore trattato internazionale e in ogni Costituzione nazionale. Così, l’uguale dignità umana è divenuta il parametro fondamentale della giustizia e, conseguentemente, il limite etico al dovere di rispettare la legalità, quando la norma scritta si pone in modo diretto contro la dignità umana, la quale, in quanto essenza della vita umana,si identifica con la vita stessa di ciascuno.

Abbiamo visto che la questione antropologica è alla base della obiezione di coscienza. Ora abbiamo dimostrato che alla base del diritto alla vita si trova la dignità umana. Si tratta ancora una volta della questione antropologica. L’uomo è rispettato nella sua dignità se gli si consente di cercare il senso della sua vita (dimensione religiosa) e di rispettare la vita degli altri (dimensione civile). In queste direzioni l’obiezione di coscienza, anche quando è contro la legalità, conferma la radice dell’ordinamento e quando la legalità la riconosce rafforza il senso profondo della legalità stessa e ne è quindi al servizio.

            Non si deve trascurare neppure un collegamento dell’obiezione di coscienza con quella che Giovanni Paolo II ha chiamato la nuova questione sociale, politica e legislativa della vita umana, a sua volta strettamente connessa con le tematiche familiari. Estremamente chiaro è il passaggio dell’ Evangelium Vitae dove si afferma senza esitazione che: «Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante»[28]. «L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza»[29]. L’obiezione di coscienza nel campo della bioetica può pertanto leggersi comeespressione della «generale mobilitazione delle coscienze […] per mettere in atto una grande strategia a favore della vita»[30]. Merita a proposito di essere ricordato il gesto del re del Belgio, Baldovino, che nel 1990 si rifiutò di firmare la legge che istituiva l’aborto legale.

Alla questione sociale della difesa e della promozione della vita umana è connesso il tema della pace a cui pure, dunque,è legata l’obiezione di coscienza.

 «Operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità. Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita. […] Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita. […] Perciò, è anche un’importante cooperazione alla pace che gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia».[31]

            Anche quando le leggi non possono essere cambiate perché mancano le condizioni necessarie, o perché il legislatore intende trovare forme nuove per proteggere la vita rinunciando ai divieti, ma affidandosi a strumenti culturali, allora tanto più l’obiezione di coscienza sanitaria è un potente strumento per mantenere viva nella coscienza collettiva, oltreché individuale, il riconoscimento del valore della vita. Insomma, l’obiezione non è soltanto una difesa dell’opinione e della tranquillità di coscienza del sanitario, ma un modo attivo di recupero, almeno culturale, del principio etico che è alla base di ogni ordinamento giuridico[32]. Questo spiega l’avversione per l’obiezione del personale sanitario da parte di quanti vorrebbero che l’aborto e l’eutanasia venissero riconosciuti come diritti fondamentali e perciò devono negare o nascondere l’identità umana e la dignità dei nascituri e delle persone giudicate “inutili” perché inguaribilmente malate,gravemente disabili o morenti.

L’obiezione di coscienza nella deontologia professionale. – L’istanza etica è stata fatta propria dalla deontologia professionale. «Agire secondo scienza e coscienza» è da sempre il monito della professione sanitaria: la coscienza a cui si fa riferimento è la coscienza professionale che viene orientata dalle indicazioni etiche, deontologiche e giuridiche[33]. «Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». «Mi asterrò da tutto ciò che può nuocere e non prenderò, né somministrerò consapevolmente alcuna droga nociva».

Così, rispettivamente, recitavano il Giuramento di Ippocrate (430 a.c.) e il Giuramento di Florence Nightingale (1893). L’obiezione di coscienza assume un peculiare rilievo nell’ambito dell’attività sanitaria, come risulta anche dal fatto che in generale essa è prevista dai codici deontologici degli ordini professionali.

            Nel nuovo Codice di Deontologia medica della Federazione Nazionale Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) approvato il 18 maggio 2014, è principio generale l’assunto secondo cui «l’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritto inalienabile del medico» (art. 4) e, in particolare, all’articolo 22 – rubricato “Rifiuto di prestazione professionale” – si dichiara: «Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione»[34]. A parte la questione sull’interpretazione del «grave e immediato nocumento per la salute» e la discutibilità dell’ultima disposizione (il medico che ritiene una prestazione «in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici» è tenuto a fornire «informazioni e chiarimenti per ottenere la prestazione»)[35], merita ricordare che in una precedente stesura del codice, all’art. 22 il riferimento alla coscienza era scomparso e sostituito con l’espressione “convincimenti etici”. Le moltissime critiche appuntatesi su questa omissione hanno portato al recupero del valore della coscienza, presente nelle precedenti versioni dei codici del 2006 e del 1998, anteponendolo convincimenti tecnico-scientifici. Da sottolineare che la scelta di coscienza è svincolata dall’istituto giuridico dell’obiezione di coscienza, in modo da garantirle uno spazio di espressione più ampio di quello che le risulterebbe riconosciuto dalle tassative ipotesi di legge. È questa l’interpretazione dell’art. 19 del Codice del 1998 offerta anche dal Comitato Nazionale per la Bioetica che – nel parere del 28 maggio 2004 in tema di “contraccezione di emergenza”[36] – riconosce al medico «il diritto di appellarsi alla “clausola di coscienza». Quanto all’obiezione di coscienza “tout court”, vengono in evidenza gli artt. 43/3 e 44/3 del Codice di deontologia medica. Il primo, con riguardo all’aborto, afferma che «l’obiezione di coscienza si esprime nell’ambito e nei limiti dell’ordinamento e non esime il medico dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna». Il secondo, con riguardo alle tecnologie riproduttive, stabilisce che «sono fatte salve le norme in materia di obiezione di coscienza, senza esimere il medico dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della coppia».

            Alla “clausola di coscienza” fa riferimento anche il Codice deontologico dell’Infermiere del 2009[37]: «L’infermiere, nel caso di conflitti determinati da diverse visioni etiche, si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, si avvale della clausola di coscienza, facendosi garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito» (art. 8)[38]. Il  Codice deontologico dell’Ostetrica del 2005, integrato e rivisto nel 2014[39] menziona sia l’obiezione sia la clausola di coscienza: «L’ostetrica/o di fronte ad una richiesta di intervento in conflitto con i principi etici della professione e con i valori personali, si avvale della obiezione di coscienza quando prevista dalla legge e si avvale della clausola di coscienza negli altri casi, garantendo le prestazioni inderogabili per la tutela della incolumità e della vita di tutti i soggetti coinvolti» (art. 3.16).

            Oltre alla dimensione personale dell’obiezione di coscienza, vi è anche quella professionale in cui la coscienza si costituisce all’interno di un ethos professionale. Perciò a livello deontologico l’obiezione di coscienza riguarda quegli interventi che, richiesti all’operatore sanitario, potrebbero compromettere la loro credibilità professionale: scegliere di obiettare si configura, allora, come una forma di salvaguardia  della categoria di appartenenza, a tutela di quel tacito patto sociale che giustifica l’esercizio della medicina. Questo patto non si basa su norme  giuridiche, ma si nutre di quel rapporto bilaterale di fiducia che è alla base della relazione tra l’operatore sanitario e il paziente.Con ciò non si vuole dire che la scelta dell’obiezione di coscienza non abbia per l’operatore sanitario anche una valenza etica: l’operatore sanitario viene sempre interpellato non solo in quanto operatore sanitario, ma anche in quanto  uomo, che – per prendere una decisione in coscienza – deve fare riferimento ad una gerarchia di valori. È la coscienza morale che viene  avvertita come una realtà superiore e privilegiata; è la  coscienza morale che rende le azioni libere e responsabili e, quindi, eticamente rilevanti.

Applicazioni concrete dei principi. – Gli attuali attacchi contro l’obiezione di coscienza sanitaria giuridicamente regolata[40] suggeriscono una analisi particolare dei problemi etici relativi ad alcune aree di confine della pratica abortiva.

Un primo grave problema riguarda l’aborto chimico. Non intendiamo parlare della pillola RU486, la cui efficacia abortiva non è messa in discussione e il cui uso, pertanto, non pone questioni diverse da quelle investite dall’aborto chirurgico. Ci riferiamo, invece, a quelle “pillole” chiamate “contraccezione di emergenza” consistenti nella prescrizione e somministrazione della c.d. “pillola del giorno dopo”, contenente levonogestrel e della pillola c.d  “dei cinque giorni dopo” contenente ulipistral acetato. Si parla anche di “contraccezione post-coitale”, perché i preparati ora indicati vengono prescritti soltanto dopo un rapporto sessuale “non protetto”. Secondo il documento finale dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), che è stato accettato anche dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), queste pillole impedirebbero o ritarderebbero l’ovulazione, cosicché impedirebbero il concepimento e dovrebbero perciò essere qualificate “contraccettivi”. Peraltro, si trascura il fatto che la fecondazione potrebbe essere avvenuta prima dell’assunzione del prodotto in questione. Inoltre i documenti di alto e non contestato valore scientifico che lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica ha preso in considerazione[41], provano che il levonogestrel e l’ulipistral acetato producono anche una alterazione della mucosa uterina (endometrio) rendendola inospitale, cosicché – se il concepimento avviene – l’embrione non trova accoglienza e muore. Di fronte a questa conseguenza, i sostenitori degli effetti contraccettivi e non abortivi delle “pillole” ricorrono al concetto, ormai abbandonato dalla scienza medica e giuridica[42], di “pre-embrione” secondo il quale il concepito non sarebbe un individuo umano finché non si è impiantato in utero. Perciò, la sua distruzione in un momento precedente non potrebbe qualificarsi aborto. Non è questa a sede per soffermarsi ulteriormente su una più dettagliata informazione tecnico scientifica. Quanto qui esposto è sufficiente per porre la domanda: qual è il dovere dell’operatore sanitario (medico o farmacista) a cui è chiesta la prescrizione e/o la somministrazione di questi preparati che oggettivamente sono eventualmente abortivi? L’aborto non è sicuro, ma è ragionevolmente possibile. Nella coscienza dell’operatore sanitario può non esservi la certezza del suddetto effetto eventualmente abortivo, ma può esservi almeno il dubbio ragionevolmente alimentato dalla autorevolezza di chi lo sostiene. Come si deve egli comportare anche quando la legge, così come interpretata giuridicamente o amministrativamente, gli nega in questo caso il diritto alla obiezione di coscienza? Il problema etico va posto su due versanti: quello dell’operatore sanitario e quello dell’ordinamento giuridico.

            Sotto il primo aspetto, il rifiuto di somministrazione dei preparati di cui stiamo parlando è giustificato, anzi imposto, dalla rilevanza del bene della vita umana. A nessuno è lecito sparare un colpo di fucile in una data direzione, se non è certo che su quella traiettoria non ci sia un uomo. Il principio di precauzione, oggi tanto spesso richiamato nel campo dell’ecologia, vale ancora di più quando è in gioco la vita umana. Sul secondo versante, si può immaginare che i responsabili del potere (legislativo, giudiziario, amministrativo) siano condizionati dai documenti ufficiali dell’EMA e dell’AIFA e non siano in condizione di opporsi ad essi. Resta, tuttavia, per loro il problema etico-giuridico: come comportarsi di fronte al sanitario che responsabilmente obietta? Non si tratta di decidere se commercializzare o meno un determinato prodotto, ma di decidere se costringere o non costringere una persona ad agire contro la sua coscienza, imponendogli un atto che ella ragionevolmente ritiene possibile causa della morte di un essere umano. È evidente che l’autorità dovrebbe rispettare quella coscienza e consentire l’obiezione.

            Un altro attuale grave problema riguarda gli atti che preparano o che seguono l’intervento abortivo, cioè quei comportamenti che si trovano, per così dire, nella periferia del gesto immediatamente uccisivo. Anche in questo campo è molto forte la pressione è per ridurre lo spazio dell’obiezione di coscienza[43]. È evidente che il criterio decisivo per la scelta etica è quello del concorso causale: tutto ciò che contribuisce al verificarsi dell’evento letale deve essere rifiutato.

            La questione si è posta con particolare intensità riguardo al rilascio, da parte del medico che ha effettuato il colloquio previsto dall’art. 5 della L. 194 del 1978, del documento attestante lo stato di gravidanza che costituisce l’indispensabile presupposto necessario (definito “titolo” dall’art. 8 L.194/1978) per eseguire l’aborto. Trattandosi di un antecedente necessario (senza di esso non si può abortire) il rilascio di tale documento è sicuramente coperto dalla obiezione di coscienza, così come del resto si evince dall’art. 9 L. 194/1978. Tuttavia, alcuni obiettori sostengono che, proprio per evitare l’interruzione della gravidanza, essi avvertono il dovere morale di creare l’occasione per avere un colloquio con la donna orientata verso l’aborto e che perciò anche il rilascio del “documento” dovrebbe essere eticamente consentito. È doveroso rispettare le buone intenzioni di chi caldeggia questa tesi, ed anche rilasciare un margine di valutazione al sanitario cui si presenta un caso concreto, ma in linea di massima dobbiamo ragionare sul concepito non ancora nato come se ragionassimo di fronte ad un essere umano già nato. Un contributo (quale che sia, e quali siano state le valutazioni di coscienza) alla sua uccisione, resta eticamente assai inquietante. Alla Chiesa italiana il problema si pose immediatamente dopo l’entrata in vigore della L. 22 maggio 1978 n. 194 che legalizzò l’interruzione volontaria della gravidanza. Nell’Istruzione pastorale del Consiglio permanente della Conferenza episcopale, pubblicata l’8 dicembre 1978, si legge: «non è lecita la cooperazione prossima all’azione abortiva diretta quale si verifica […] con il rilascio di attestati che siano una vera e propria autorizzazione all’aborto per il loro contenuto e per il loro valore legale»[44].

            Più drammaticamente questo tema fu discusso, in dialogo scritto e verbale, tra Giovanni Paolo II e i Vescovi tedeschi all’indomani della legge sull’aborto nella Germania riunita; legge del 21 agosto 1995 che prevedeva una forte azione di dissuasione all’aborto da parte dei consultori familiari. Una parte dell’episcopato tedesco sosteneva che i medici cattolici avrebbero potuto partecipare all’attività consultoriale ed eventualmente rilasciare il documento indispensabile per eseguire l’aborto, purché nel contenuto di tale attestato fosse ricordato alla donna la gravità dell’interruzione di gravidanza in quanto atto uccisivo. Tuttavia, Giovanni Paolo II respinse tutte le motivazioni propostegli e chiese reiteratamente che i medici cattolici si astenessero dal rilasciare questo tipo di documento necessario per effettuare l’aborto, a causa del suo valore legale e quindi costituente un elemento indispensabile della serie causale il cui effetto è l’uccisione di un essere umano[45].

In Italia il superamento della contraddizione sarebbe semplice: basterebbe rendere i consultori familiari lo strumento univoco con cui lo Stato, mentre permette la c.d. “interruzione volontaria della gravidanza”(IVG), non rinuncia all’uso di ogni azione rivolta ad evitare che l’aborto effettivamente avvenga. Perciò, il consultorio non dovrebbe essere il luogo dove obbligatoriamente è rilasciata l’autorizzazione all’IVG. A ben guardare, già la Legge 194/1978 non stabilisce un tale obbligo, ma, purtroppo, è invalsa un’interpretazione ed un’attuazione abortista per cui si è giunti al tentativo di escludere gli obiettori dai consultori[46] e di obbligarli a rilasciare il documento che costituisce titolo per eseguire l’intervento[47]. In questa situazione sarebbe opportuna una norma chiarificatrice che escludesse da qualsiasi coinvolgimento nell’iter abortivo i consultori familiari rendendoli chiaramente il luogo dell’alternativa all’aborto e quello dove gli obiettori trovano spazio[48]. Tanto più è necessario, quindi, ribadire le esigenze etiche fin qui sintetizzate.

Altre questioni sono sorte riguardo ad altre attività che precedono e seguono l’intervento abortivo. Forse occorre lasciare alla coscienza dell’operatore sanitario la soluzione dei dubbi nel caso concreto, dovendosi bilanciare il rispetto incondizionato per ogni vita umana con la doverosa assistenza verso le persone. C’è, però, una situazione che ha dato luogo a vicende giudiziarie e sulla quale è opportuno riflettere in questa sede. Si tratta dell’ipotesi in cui, provocato un aborto tardivo mediante sostanze chimiche (prostaglandine) ed essendo già probabilmente avvenuta la morte del feto, si tratta di provvedere – a distanza di qualche tempo dalla somministrazione delle sostanze che l’hanno determinato –  alla espulsione del feto e al secondamento. La tesi che essendo già avvenuta la morte, non vi è alcun contributo causale dell’obiettore in direzione dell’evento letale, è contrastata dal fatto che nella programmazione dell’IVG è compresa anche la sua fase finale. In altri termini, l’aborto non sarebbe stato effettuato senza l’assicurazione del completamento dell’intervento dopo la morte del concepito. Vi è, dunque, un concorso causale nell’assicurazione preventiva di garantire il secondamento e l’espulsione. È pertanto eticamente doveroso il rifiuto di tale assicurazione. È l’organizzazione dell’istituto ospedaliero che deve provvedere alla completa realizzazione dell’evento letale senza coinvolgere il personale obiettore. Il quale, però, qualora l’assenza dei altri medici e la particolare situazione sanitaria della donna determinino per lei un  pericolo grave, non potrà sottrarsi all’assistenza pur essendo opportuno che egli faccia risultare la sua protesta sulla cartella clinica.

Ulteriori ambiti e situazioni in cui è messo alla prova il fondamento etico dell’obiezione di coscienza. Cenni. – Ci siamo soffermati alquanto sull’obiezione di coscienza in riferimento all’aborto e al personale sanitario, perché questa è la materia dove più frequenti e accese sono le controversie. In realtà, in tema di aborto ci sarebbero altre problematiche che qui non possiamo trattare riguardo, ad esempio, ai giudici tutelari che intervengono nel caso di una minorenne che chiede l’interruzione volontaria della gravidanza senza avere il consenso dei genitori[49], o ai responsabili dell’organizzazione e della programmazione dei presidi ospedalieri.

            Non si possono ignorare, inoltre, ulteriori campi in cui va messa alla prova la radice etica dell’obiezione e anche in ordine all’IVG vi sono altre categorie di persone, diverse da quelle che esercitano una professione sanitaria, che possono essere interpellate nella loro coscienza.

La legge italiana riconosce l’obiezione anche nel campo della procreazione medicalmente assistita[50]. Vi è una evidente coerenza con quella radice contemporaneamente antropologica e fondativa del diritto alla vita che abbiamo indicato. A parte la grande “perdita” di embrioni generati al di fuori del seno materno, la selezione, la distruzione diretta, il congelamento degli embrioni conseguenti alla “produzione soprannumeraria”, implicano la morte deliberatamente data a esseri umani.

Sembra invece derivare da una visione individualista – che, cioè, mira soltanto a proteggere le emozioni del singolo – l’obiezione prevista nel campo della sperimentazione animale (L. 413/1993)[51], quando non si tenta di motivarla con l’erronea convinzione dell’assenza diun “salto qualitativo” tra l’uomo e l’animale che sta alla base di un certoanimalismo che proclama i “diritti degli animali” e riconosce il valore unitariodegli “esseri senzienti” nel provare piacere o dolore. Invece, laddove è permessa in qualsiasi forma e con qualsiasi nome l’eutanasia, l’obiezione di coscienza appare un sacrosanto diritto eticamente fondato, ed altrettanto eticamente doveroso è il suo riconoscimento da parte della legge positiva.

            Il tema della obiezione di coscienza può essere introdotto anche in altri campi, segnatamente quello della famiglia. Che dire nel caso del sindaco o del funzionario chiamato a celebrare un matrimonio tra persone dello stesso sesso? Lo stretto collegamento della famiglia con la generazione dei figli e quindi con il bene comune (non a caso l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo definisce la famiglia «nucleo fondamentale della società e dello Stato») giustifica l’obiezione – sia o non sia riconosciuta dal diritto positivo – in rapporto alla radice antropologica e giuridicamente fontale della obiezione stessa.

L’obiezione dei popoli. –Prendendo spunto da uno scritto intitolato “Uno di noi. L’obiezione di coscienza dei popoli”[52], si propone una riflessione finale che è logica deduzione da quanto sostenuto sulla radice etica dell’obiezione di coscienza. Se è vero che l’obiezione trae la sua linfa vitale dal concetto di dignità umana, dal collocare l’uguaglianza di ogni essere umano alla base di ogni ordinamento giuridico moderno, allora l’obiezione è di necessità anche l’indicazione di una radicale ingiustizia di una legge; e le leggi ingiuste devono essere cambiate, quanto meno migliorate o, almeno, superate. Questo, però, non può essere compito degli obiettori. Specialmente nei sistemi democratici questo è compito dei popoli che si esprime in forma eminente al momento del voto. La questione della vita di esseri umani non può quindi essere estranea alle scelte proprie della politica. Si può perciò immaginare una “obiezione di coscienza dei popoli” che si può manifestare in molti modi. Essa consiste nel rifiuto di aderire all’idea consacrata nelle leggi che talora il figlio dell’uomo e della donna non è un essere umano o non ha una dignità uguale a quella di ogni altro essere umano. Perciò il contenuto elementare di questa “obiezione dei popoli” consiste nella proclamazione che ogni essere umano è sempre “uno di noi”[53]. Non si tratta di una difesa dei sentimenti personali, non si tratta della manifestazione di una nostalgia del passato, non si tratta di dire “no”. È, invece, un “sì” che promette il compimento del moto storico che ha scoperto la dignità umana come intuizione di un valore così misteriosamente alto da non consentire graduazioni, così decisivo per il bene comune (la libertà, la giustizia, la pace) da apparire la prima pietra d un autentico rinnovamento morale e civile che tutti vogliamo collocare nel nostro futuro.

Marina Casini

 


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[1]J. Laffitte, A History of Conscientious Objection and Different Meanings of the Concept of Tolerance, in E. Sgreccia – J. Laffitte (Edited by), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2008, pp. 71-88.

[2]A.A. R. Bastiaensen (a cura di), Atti e passioni dei martiri, Milano, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 1987.

[3]Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Centesimus annus (1 maggio 1991), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, n. 47. Tra i principali diritti, Giovanni Paolo II ricorda: «il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità».

[4] Corte Costituzionale, sentenza 16 – 19 dicembre 1991, n. 467, in Gazzetta Ufficiale, 1a Serie Speciale, n. 51 del 24 dicembre 1991.

[5] Ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona (2009), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha il medesimo valore giuridico dei trattati e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri.

[6] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa. Dignitatis humanae (7 dicembre 1965), in AAS 58 (1966), pp.  929-941.

[7]J.M. Di Falco – T. Radcliffe – A. Riccardi (a cura di), Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo, Milano, Mondadori, 2014; R. Guitton, Cristianofobia. La nuova persecuzione, Torino, Lindau, 2010. Si veda anche M. Toso, Libertà religiosa e diritti umani, relazione tenuta a Padova il 19 novembre 2014 e reperibile nel sito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Nella relazione si specifica che oggi nel 60% del territorio mondiale, la libertà religiosa non sarebbe garantita eche nel 20%dei paesi i cristiani sarebbero a rischio.

[8] Si veda anche la lettera di Asia Bibi dalla prigione di Sheikhupura (Pakistan​), pubblicata in Avvenire, l’8 dicembre 2012.

[9] Legge 25 ottobre 1977, n. 881 Ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966, in Gazzetta Ufficiale n.333 del 7 dicembre 1977.

[10]Legge 4 agosto 1955, n. 848, Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955.

[11]Da ultimo: Corte europea dei diritti umani, casi Güler e Uğur c. Turchia (nn. 31706/10, 33088/10) del 2 dicembre 2014.

[12]Consiglio d’Europa, Assemblea Parlamentare, Risoluzione n. 1763 del 7 ottobre 2010, Diritto all’obiezione di coscienza nell’ambito delle cure mediche legali.

[13] Essa non trova menzione né negli artt. 3, 7, 8, 19, e 20, che disciplinano  e tutelano la libertà e l’uguaglianza in materia di religione, né nell’art. 21 che tutela la libertà di manifestazione del pensiero.

[14]R. Bertolino, Obiezione di coscienza. Profili teorici (voce), in Enciclopedia Giuridica, Vol. XXI, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1990, p. 3.

[15] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965, n. 16.

[16] È famosa la “Lettera ai giudici” (18 ottobre 1965) scritta dal “priore di Barbiana”, Don Milani, impedito dalla malattia a recarsi a Roma per il processo. Egli scriveva: «Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siamo cambiate. […] E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede». La posizione di don Milani è espressa anche nel testo “L’obbedienza non è più una virtù” (1965) rivolto ai cappellani militari che si erano dichiarati contrari all’obiezione di coscienza al servizio militare.

[17] Dopo la liberazione dall’occupazione tedesca, in Francia nel 1948, due giovani si ritrovano in un carcere militare: uno è un obiettore di coscienza, rinchiuso perché aveva rifiutato il servizio di leva e la partecipazione a qualunque guerra, l’altro un seminarista tedesco che era stato costretto ad obbedire agli ordini di fucilare un partigiano francese. Il verdetto dei giudici assolverà il seminarista che ha ucciso per obbedire a un ordine superiore mentre l’obiettore sarà condannato per aver violato la legge civile.A. Papuzzi, Cinquant’anni fa la battaglia trasversale per “Non uccidere” pellicola antimilitarista di Autant-Lara vietata dalla censura, in La Stampa 21 ottobre 2011.

[18] Per alcuni riferimenti: R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1986.

[19] Legge n.772 del 15 dicembre 1972, Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, in Gazzetta Ufficiale n. 91 del 3 aprile 1978.

[20] Legge 8 luglio 1998, n. 230, Nuove norme in materia di obiezione di coscienza, in Gazzetta Ufficiale n.163 del 15 luglio 1998.

[21] L. 14 novembre 2000, n. 331, Norme per l’istituzione del servizio militare professionale, in Gazzetta Ufficiale n. 269 del 17 novembre 2000.

[22]C. Casini, Diritto alla vita, coscienza cristiana e politica, in E. Sgreccia – J. Laffitte (a cura di), La coscienza cristiana a sostegno del diritto alla vita, Suppl. al volume degli atti della XIII Assemblea generale della PAV (23-25 febbraio 2007), Città del Vaticano, Pontificia Accademia per la Vita, 2008, pp. 25-29.

[23]J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, p. 18.

[24]Spunti in questo senso vengono dal parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Obiezione di coscienza e bioetica, 12 luglio 2012.

[25]Così Robert Spaemann richiamato da J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’elogio della coscienza… cit., p. 155 ss.

[26]E. Sgreccia – M.L. Di Pietro, L’agire morale, in E. Sgreccia- A. G. Spagnolo- M. L. Di Pietro (a cura di), Bioetica. Manuale per i Diplomi Universitari della Sanità, Milano, Vita e Pensiero, 1999, pp. 123 – 124; G. Miranda, Risposta d’amore, Roma, Logos Press, 2001, pp. 75 – 78.

[27] Cfr. A. Tarantino – R. Rocco – R. Scorrano (a cura di), Il processo di Norimberga.Scritti inediti e rari, Milano, Giuffrè, 1999; C. Casini, Processo di Norimberga e crisi del giuspositivismo, in A. Tarantino – R. Rocco – R. Scorrano (a cura di), Il processo di Norimberga a cinquant’anni dalla sua celebrazione, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 125-135.

[28]Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 25 marzo 1995, n. 72.

[29]Ibidem, n. 73.

[30]Ibidem, n.  95.

[31]Benedetto XVI, Beati gli operatori di pace,Messaggio per la 46ª Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2013, paragrafo 4 intitolato Operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità.

[32]M. Faggioni, Non disobbedienza alla legge, ma attestazione di coerenza, in I Quaderni di Scienza e Vita, 2013, 12, pp. 25 -28.

[33] Cfr. M. L. Di Pietro – C. Casini – M. Casini – A.G. Spagnolo,Obiezione di coscienza in sanità, cit., pp. 38 – 40.

[34] Per una nota di commento: G. Battimelli, Il dibattito in bioetica. L’obiezione di coscienza e il nuovo Codice deontologico dei medici, in Medicina e Morale, 2014, 6, pp. 1047 – 1055.

[35] Una valutazione critica del nuovo articolo 22 del Codice di deontologia medica è quella di P. Marchionni, Obiezione di coscienza: il caso marchigiano e le nuove prospettive di deontologia medica, in I Quaderni di Scienza e Vita, 2013, 12, pp. 69 – 77.

[36] Comitato Nazionale di Bioetica, Nota sulla contraccezione d’emergenza, 28 maggio 2004.

[37] Federazione Nazionale Collegi Infermieri Ipasvi, Codice deontologico dell’Infermiere,approvato dal Comitato centrale della Federazione con deliberazione n.1/09 del 10 gennaio 2009e dal Consiglio nazionale dei Collegi Ipasvi riunito a Roma nella seduta del 17 gennaio 2009.

[38]La versione del 1999 recitava: «nel caso di conflitto determinati da profonde diversità etiche, l’infermiere si impegna  a trovare la soluzione attraverso il dialogo. In presenza di volontà profondamente in contrasto con i principi etici della professione e con la coscienza personale, si avvale del diritto all’obiezione di coscienza» (art. 2.5).

[39] Federazione Nazionale Collegi Ostetriche, Codice deontologico dell’ostetrica/o, approvato dal Consiglio Nazionale nella seduta del 19 giugno 2010 con integrazioni/revisioni approvate dal Consiglio Nazionale nella seduta del 5 luglio 2014.

[40] Si pensi alla sentenza della Cassazione n. 149279 del 2013 che, confermando le decisioni di primo e secondo grado (rispettivamente Tribunale di Pordenone e Corte di Appello di Venezia), condannava definitivamente  una ginecologa obiettrice di coscienza a un anno di reclusione per il reato di cui all’art. 328 c.p. (rifiuto di atti d’ufficio), con sospensione condizionale della pena e con l’interdizione per un anno dall’esercizio della professione medica, oltre al risarcimento dei danni alla parte civile (euro 8.000,00).  A commento: C. Casini – M. Casini, Una nuova riflessione sul significato dell’obiezione di coscienza alla luce di una sentenza ingiusta. Nota a Cass. n. 14979 del 2 aprile 2013, in Medicina e Morale, 2013, 2, pp. 275-297. Si pensi anche ai due ricorsi presentati dinanzi al Comitato europeo dei diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, miranti a ottenere la condanna dell’Italia, perché l’obiezione di coscienza impedirebbe l’esercizio di un preteso “diritto” di aborto della donna. Il primo ricorso è stato presentato da International Planned Parenthood Federation European Network (OPPF-EN) l’8 agosto 2012; l’altro è stato presentato dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) nel febbraio 2013. Purtroppo, sul primo ricorso – International Planned Parenthood Federation European Network (IPPF EN) v. Italy (n. 87/2012) – il Comitato europeo dei diritti sociali ha rilevato da parte dell’Italia, una violazione dell’art. 11 (diritto alla salute) della Carta sociale europea a causa della mancata garanzia dell’accesso all’interruzione di gravidanza.

[41]Comitato Nazionale di Bioetica, Nota sulla contraccezione d’emergenza, cit.

[42]M. Ferrer Colomer, Thepreembryo’s short lifetime.The history of a word, in Cuad. Bioét. XXIII, 2012/3ª, pp. 677 – 694; A. Tarantino, Sulla nozione di embrione umano in senso ampio. A proposito della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea  del 18 ottobre 2011, in Scritti in onore di Elio Sgreccia, Siena, Cantagalli,  2012, pp. 499 – 525; C. Casini – M. Casini – A. G. Spagnolo, La sentenza della Corte europea di giustizia del 18 ottobre 2011 e la nozione di embrione in senso ampio, in Medicina e Morale, 2011, 5, pp. 777-801.

[43] Si pensi, per esempio, alle discussioni interpretative circa l’art. 9 della legge 194 del 1978 in cui si afferma che l’obiettore è esonerato dalle attività necessariamente e specificatamente dirette a determinare l’IVG, ma non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento: a fronte di chi ritiene, per esempio, che l’esame cardiologico connesso all’aborto non è coperto da obiezione di coscienza perché si tratterebbe di un’attività “multifunzionale” e dunque non “necessariamente” e “specificatamente” orientata all’intervento abortivo; vi è chi ritiene al contrario che anche un’attività che in sé non evoca l’aborto, può essere “necessariamente e specificatamente diretta ad esso nella misura in cui gli è preordinata nella concreta e contingente situazione (sul punto: C. Casini, Considerazioni in merito alla interpretazione dell’art. 9 della legge 194/1978 sulla obiezione di coscienza alla interruzione volontaria della gravidanza, in Medicina e Morale, 1998, 4,  pp. 579 – 772). Analoghe questioni si pongono, per esempio, se pensiamo al secondamento o all’estrazione del piccolo bambino già morto. Su questi e molti altri aspetti si veda: M.L. Di Pietro -C. Casini – M. Casini, Obiezione di coscienza in sanità. Vademecum, Cantagalli, Siena 2009.

[44]Comunità cristiana e accoglienza della vita umana nascente, in Collana Documenti della CEI n. 17, Editrice LDC, 1978, p. 20.

[45] Si veda la lettera di Giovanni Paolo II ai Vescovi tedeschi sull’attività dei consultori familiari dell’11 gennaio 1998 nella quale si ricordano tutti i momenti del precedente dialogo con i vescovi tedeschi su questo punto. Vi si legge tra l’altro: « Per quanto riguarda poi il problema del certificato di consulenza, vorrei ripetere quanto vi ho scritto già nella lettera del 21 settembre 1995: “Esso attesta che ha avuto luogo una consulenza, ma è allo stesso tempo un documento necessario per l’aborto depenalizzato nelle prime 12 settimane della gravidanza”. Voi stessi avete più volte designato come “dilemma” questo significato contraddittorio del certificato di consulenza, che ha il suo fondamento nella legge. Il “dilemma” consiste nel fatto che il certificato attesta la consulenza nel senso della difesa della vita, ma rimane sempre la condizione necessaria per l’esecuzione depenalizzata dell’aborto, anche se certamente non è la causa decisiva che lo provoca». Al 3 giugno 1999 è datata una successiva lettera in cui, a seguito dei risultati di un gruppo di lavoro, Giovanni Paolo II suggerisce ed auspica che «nella certificazione scritta, che viene rilasciata alle donne nel quadro del “piano di consulenza e di aiuto” […] venga menzionato solo lo scopo della consulenza e degli aiuti ed alla fine della frase venga aggiunto: “Questo certificato non può essere utilizzato per l’esecuzione depenalizzata di aborti”. Con tale aggiunta si tratta allora veramente di un certificato di altra natura, la cui funzione consiste solo nel fatto di attestare la consulenza ecclesiale e di dare un diritto agli aiuti promessi». In questo contesto è opportuno ricordare anche il discorso ai Vescovi tedeschi (22 giugno 1996) e altri incontri con una delegazione della Conferenza Episcopale tedesca (5 dicembre 1995, 4 aprile 1997 e 27 maggio 1997).

[46]C. Casini, Consultori familiari e legge n. 194/1978, in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2010, 4, pp. 1777 – 1785; M. Casini, La sentenza del TAR-Puglia n. 3477/2010: l’accesso degli obiettori di coscienza ai consultori familiari pubblici, in Medicina e Morale, 2010, 5, pp. 663- 683.

[47]È il caso, per esempio del decreto n. U00152/2014 del 12 maggio 2014 Rete per la Salute della Donna, della Coppia e del Bambino: ridefinizione e riordino delle funzioni e delle attività dei Consultori Familiari regionali, siglato dal Presidente pro-tempore della Giunta della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, investito del ruolo di Commissario ad Acta per la Sanità. Contro questo decreto, la Federazione Nazionale dei Centri e Movimenti per la Vita d’Italia (Movimento per la Vita Italiano),  l’Associazione Nazionale dei Medici Cattolici (AMCI) e l’Associazione Italiana dei Ginecologi e Ostetrici Cattolici (AIGOC) hanno presentato un ricorso al TAR-Lazio per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del decreto stesso. Il ricorso è pubblicato in Medicina e Morale, 2014, 4, pp. 710-722. Il Tar Lazio, con sentenza dell’8 ottobre 2014 aveva respinto la proposta istanza cautelare, mentre il Consiglio di Stato, con sentenza del 5 febbraio 2015 ha sospeso l’efficacia della parte del decreto riguardante il rilascio del documento per effettuare l’aborto, «considerato che l’appello cautelare appare assistito da profili di fondatezza nella parte in cui contesta il dovere del medico operante presso il Consultorio familiare di attestare, anche se obiettore di coscienza, lo stato di gravidanza e la richiesta della donna di voler effettuare l’IVG, ai sensi dell’art. 5, comma 4, della legge n. 194 del 1978».

[48] In effetti alcune proposte di legge aventi questo scopo sono state presentate ma non sono state prese in considerazione.

[49] Si veda da ultimo: Corte Costituzionale, ordinanza n. 126 del 7-10 maggio 2012 e Corte Costituzionale, ordinanza n. 196 del 20 giugno – 19 luglio 2012.

[50] Art. 16 della LLegge 19 febbraio 2004, n. 40 Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, in Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 2004.

[51] Legge 12 ottobre 1993 n. 413, Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 244 del 16 ottobre 1993.

[52] Si tratta del testo della relazione di Carlo Casini al XI Congresso Nazionale di Scienza e Vita (Roma 24-25 maggio 2013). Gli Atti del Congresso sono pubblicati ne I Quaderni di Scienza e Vita, n. 12, dicembre 2013.

[53] “Uno di noi” è anche il nome dell’iniziativa dei cittadini europei di cui si dà conto al paragrafo n. 5 della voce “Movimenti per la vita” contenuta nell’VIII volume di questa Enciclopedia. In estrema sintesi, con “Uno di noi” 1.894.693 di cittadini europei attraverso una sottoscrizione certificata hanno chiesto alle istituzioni europee di non finanziare ricerche distruttive di embrioni umani nei settori di competenza dell’Unione Europea, in nome del riconoscimento del diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento.

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