Ancora sul caso Cappato. Cronaca di una piccola odissea giudiziaria

Gli ultimi risvolti processuali inerenti il caso di Marco Cappato, per i fatti relativi alla morte di Fabiano Antoniani, aggiungono un tassello ulteriore al surreale mosaico giudiziario che i due Pubblici Ministeri milanesi, Siciliano ed Arduini, hanno concorso a creare con quella che, in occasione della presentazione dell’istanza di archiviazione poi respinta, definimmo un’improbabile, incongrua ed illogica “eccedenza motiva, interpretativa, dispositiva”[1]. Ebbene, ieri l’altro la Corte d’Assise di Milano, accogliendo l’istanza dei PM, disponeva la remissione degi atti alla Corte Costituzionale, perché vagliasse la costituzionalità dell’articolo 580 del Codice penale nella parte in cui disciplina il reato di “aiuto al suicidio”, essendo già stata disposta dal medesimo giudice l’assoluzione di Cappato per il reato di “istigazione al suicidio”.

La vicenda è ben nota: il 28 febbraio dello scorso anno, lo storico esponente dei Radicali si presentava ai Carabinieri di Milano rappresentando che, nei giorni immediatamente precedenti, avrebbe accompagnato in Svizzera, presso le strutture della Clinica “Dignitas”, Fabiano Antoniani, nell’intento di porre quest’ultimo in condizione di dar corso al suo desiderio di mettere fine alla sua esistenza, per mezzo di un’iniezione letale eseguita secondo i protocolli vigenti presso la medesima struttura sanitaria. Effettuate le dovute indagini, i PM citati giungevano incomprensibilmente alla richiesta di archiviazione del caso, spiegando di sentirsi in dovere di ricorrere ad un’interpretazione che fosse «più conforme ai criteri costituzionalmente orientati anche al fine di evitare la criminalizzazione di condotte che solo marginalmente ledono il bene giuridico protetto dalla norma, che solo la condotta di chi abbia agevolato in senso stretto la fase esecutiva del suicidio, fornendo i mezzi o partecipando all’esecuzione dello stesso, possa essere oggetto di rimprovero penale» (nostri i corsivi). In sostanza, aderendo ad una interpretazione deliberatamente restrittiva dell’articolo 580 e muovendo dall’idea di una sostanziale distanza, spaziale, fisica e temporale dell’agire di Cappato rispetto al momento della morte dell’Antoniani, si poteva agevolmente giungere a constatare la sostanziale irrilevanza finale dell’agire dell’indagato e così motivare la richiesta di archiviazione. Il Gip Gargiulo, tuttavia –evidenziando da un lato come anche il mero accompagnamento in Svizzera integrasse di per sé un elemento utile alla «concatenazione di condotte univocamente volte a far sì che si realizzasse lo scopo finale», e dall’altro come lo stesso Cappato avesse, nelle settimane precedenti la morte, «fornito consulto ed assistenza nel corso della malattia dell’Antoniani» cosa che lungi dall’occasionare l’insorgere di un intento suicida nello stesso, avrebbe potuto concorrere a fomentarne e radicarne la convinzione– disponeva la formulazione coattiva dell’imputazione. Giunti infine alla fase dibattimentale in Corte d’Assise, i giudici assolvevano Cappato per il reato di “istigazione al suicidio”, lasciando in piedi il solo capo relativo all’”aiuto”. E tuttavia, anche in ordine a quest’ultimo capo, accogliendo l’istanza dei PM, presentata per la verità in subordine a quella dell’assoluzione a formula piena dell’imputato, il collegio giudicante disponeva, come anticipato, la remissione degli atti alla Corte, attesa la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione posta in riferimento alla parte dell’articolo 580 del Codice disciplinante appunto l’”aiuto al suicidio”. Questi i fatti. Ora qualche critica osservazione in merito ad essi.

Si è parlato molto, nel corso di questa triste vicenda, di un “diritto al suicidio” che potrebbe, e dovrebbe, essere riconosciuto al malato in presenza di alcune precise condizioni. Quello che appare indubitabile è che il suicidio, al pari del reato di omicidio, configura nel nostro ordinamento un illecito nella misura in cui attenta a quel bene fondamentale che è la vita umana, come prova il fatto che il codice persegue tanto le condotte di “istigazione o aiuto al suicidio” quanto quelle di “omicidio del consenziente”. Il fatto che chi abbia attentato contro la propria vita e non sia riuscito nel suo intento non venga poi perseguito, è dovuto sostanzialmente a tre fattori: a) l’eventuale sanzione avrebbe alcuna efficacia afflittiva nei confronti di chi ha mostrato di essere pronto a mettere in discussione la propria stessa vita; b) parrebbe ingiusto sottoporre all’ulteriore umiliazione della pena chi ha già subito l’onta di non riuscire in un gesto estremo; c) la traiettoria offensiva della condotta ha finito col riguardare il solo bene della sua propria vita e non anche quello di altri consociati. Questi aspetti escludono, invero, la perseguibilità penale di chi tenta il suicidio, ma in alcun modo implicano il riconoscimento di un qualche diritto all’autodeterminazione dei consociati tale da poter legittimare la messa in discussione del bene fondamentale della vita.

Nel provvedimento con cui i PM milanesi avevano fatto richiesta di archiviazione, gli stessi si erano premurati di elencare le condizioni in presenza delle quali sarebbe stato auspicabile riconoscere la titolarità di un vero e proprio “diritto al suicidio”, accennando in particolare a: a) le condizioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze; b) l’esistenza di una cornice legislativa e di una disciplina regolamentare ben definite che siano volte a scongiurare abusi; c) il decorso mortale cui metterebbe capo la rinuncia ai trattamenti terapeutici; d) il fatto che il malato consideri, attualmente, indegne e intollerabili le sue condizioni di vita. Ebbene, quanto a quest’ultimo punto in particolare, va osservato che se da un lato non può ignorarsi il grido di umana sofferenza che sale dalle innumerevoli esistenze svilite dagli oltraggi della sofferenza, fisica e morale che la malattia può generare, non è chi non veda come largire un passaporto di giuridicità tout court al suicidio assistito, lasci inesorabilmente aperta la porta ad un rischio duplice: 1) lasciare che l’ultima parola sul carattere intollerabile e indegno di una vita umana afflitta dalla malattia sia del malato e abbia forma imperativa, significherebbe introdurre un elemento di soggettività che, radicando nel grado di sofferenza individuale, sarebbe difficilmente valutabile secondo criteri oggettivi, e questa impossibilità potrebbe portare ad avallare la legittimità di domande di suicidio basate, ad esempio, su mere malattie psichiche, magari perfettamente guaribili, ma in costanza delle quali verrebbe certamente compromessa l’effettiva capacità di giudizio del singolo. È in pratica quello che sta accadendo in Paesi come l’Olanda, dove è stata accordata cittadinanza giuridica piena all’eutanasia praticata ad nutum e dove è stata ampiamente documentata la stretta connessione esistente tra una legislazione permissiva in materia e il caso di persone con problemi psichici che ad essa ricorrono[2]; 2) la “certificazione”, per mezzo della stessa norma giuridica, del carattere di dignità svilita che avrebbero quanti versano in tali condizioni; a dire cioè che la titolarità di un diritto ad essere accompagnati alla morte dovendosi riconoscere esclusivamente in capo a quelli che versano in condizioni di vita fortemente segnate dalla malattia, finirebbe con l’assumere il carattere di un sigillo sociale ad uno stato esistenziale stimato come “meno degno”. È esattamente quello che emerge dalle parole del PM Siciliano che, commentando, con accento melodrammatico quasi, le immagini dell’agonia di Fabiano, ardisce con tono retorico chiedersi «se questo è un uomo»[3].

La preoccupazioni espresse dal mondo cattolico in ordine alla deriva eutanasica cui avrebbe condotto la legge sulle DAT, non hanno tardato a materializzarsi. Non è infatti bastata una legge che introducesse la facoltà di domandare ad nutum la sospensione delle terapie, senza che residuasse spazio alcuno per considerare né l’oggettiva gravità delle generali condizioni di salute di chi abbia ritualmente espresso il diniego; né l’oggettiva invasività delle soluzioni eventualmente prospettate come necessarie; né l’assenza quasi certo di un consenso dialogato, ovvero oggetto di un confronto sereno e particolareggiato intervenuto in fase di programmazione della terapia, informato su ogni aspetto che riguarda l’esecuzione e i possibili effetti della stessa, e soprattutto attuale, ovvero circostanziato, basato cioè sulla contingenza della concreta situazione che il malato si trova a vivere al momento di prestarla; né il pericolo di abusi che possono consumarsi, per il modo in cui è congegnata la legge, ai danni dei minori e degli incapaci; né l’esistenza di una prassi medico-clinica consolidata tradizionalmente incline a considerare l’alimentazione e l’idratazione artificiali quali presidi non sanitari; né l’assenza di norme che garantiscono l’obiezione di coscienza del personale sanitario; né la violazione sistematica del principio di proporzionalità delle cure; né l’irrilevanza cui è costretta la scienza medica e la pratica clinica in materia di cure palliative; né la verosimile deriva verso casi di abbandono terapeutico. Non è bastato né poteva bastare il nuovo presidio di inciviltà giuridico-morale quanto offerto dalla nuova legge sulle DAT perché l’obiettivo vero, unico ed esclusivo cui dall’inizio hanno realmente teso i sostenitori della relativa disciplina era quello di addivenire ad una legislazione in materia di eutanasia, come del resto candidamente ammesso dallo stesso Cappato in una conferenza stampa organizzata ad hoc nelle giornata di ieri[4].

La presa di coscienza allora dell’esistenza di un background culturale simile –i cui epigoni pare si possano efficacemente identificare non solo con la persona di Marco Cappato, esponente notorio di un filone partitico e politico che da sempre cavalca vicende umanissime per giungere fiera a brandire scarni trofei di “regresso” civile e sociale, ma anche con quella di un PM che asserisce, in un’udienza pubblica la cui risonanza è notevolmente amplificata dalla morbosa attenzione mediatica riservata al caso, di non voler esercitare la sola funzione che la legge, cui sempre soggiace, gli riconosce, quella relativa all’azione penale– che involge tutti e nella cui trasparenza leggere anche gli appelli che sempre più numerosi si elevano in ogni parte del mondo, potrebbe valere a considerare legittima una richiesta di legalizzazione dell’eutanasia? La risposta non può che essere negativa: aver dato conto dell’esistenza di una cornice di assunzioni culturali simili, nella quale ci muoviamo, agiamo, pensiamo e concepiamo idee, dovrebbe piuttosto valere a mettere in guardia dal rischio di avallare, attraverso l’uso dello strumento giuridico, un simile universo di pensiero che, nella misura in cui pone in discussione l’uomo, la sua vita e la sua dignità, mai potrà assurgere a modello da difendere e veicolare per mezzo del ricorso alla forza del diritto.

All’uopo non possiamo sottrarci dal ribadire che la vita rappresenta un bene, assoluto, primario, al quale appare possibile e doveroso ordinare gerarchicamente tutti gli altri, bene cioè in se stesso, ontologico, cui riconnettere la stessa dignità dell’essere umano. L’essere in vita è “il” bene fondamentale della persona, in quanto condizione di possibilità per lo sviluppo e la realizzazione di tutti gli altri beni della stessa. La salute è a sua volta un bene, grande ma non assoluto però, perché anche nella malattia la vita dell’uomo non perde nulla della sua dignità ontologicamente personale ed inconculcabile. E tuttavia, quello che oggi si cerca di fare, è di spacciare per bene assoluto la salute, e per bene relativo, che esisterebbe cioè solo in funzione di altri beni, la vita. Così alla fine questa diviene disponibile e se ne può rivendicare il diritto a disfarsene ogniqualvolta si ritiene che essa abbia perduto senso e significato. Ma la libertà di una persona non dovrebbe mai potersi spingere al punto di negare quello che è il presupposto per l’esistenza e l’esercizio della medesima, strumentalizzando e relativizzando il valore della vita umana quando questa non sia più associata o associabile ad uno stato di buona salute. Mettere in discussione il valore assoluto della vita, implica poi accettare la logica della possibile graduazione del suo valore: ci sarebbero cioè momenti in cui essa ha un valore, e momenti nei quali essa perderebbe il suo significato fino al punto di poterla considerare degna di non essere più vissuta. Ciò significa che la valutazione non potrebbe che essere rimessa, in ultima analisi, alla discrezionalità di ciascuno, che dunque sarebbe nella condizione di poter scegliere, in maniera assolutamente autonoma, quando sia giunto il momento di mettere fine alla propria esistenza. E questo rimettere la vita nella disponibilità esclusiva di ciascuno, per le ragioni addotte prima, per le situazioni cioè di fragilità, anche estrema, che l’uomo potrebbe dover affrontare, magari in una condizione di totale solitudine, non può che apparire inaccettabile. È proprio in quelle condizioni di debilità, minorità, necessità che l’appello morale ad un agire solidale diviene più forte, in ragione del fatto che non si smette mai di essere uomini –a differenza di quanto sembra sottendano le parole del PM Siciliano–, neppure quando la malattia deturpa le sembianze di un essere umano, perché è proprio allora che l’appello della sua inconculcabile dignità diviene più forte e pressante.

Infine, pare sia giusto concludere osservando come l’assurdo scenario di ipertrofia giuridica in cui si dibattono le nostre società costituisca un’altra delle concause culturali che hanno concorso a generare e che continuano ad alimentare la richiesta di una legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistitito, allo scopo, si dice, di evitare il ricorso a possibili episodi di trattamenti clandestini. Quello del morire, come quello del nascere d’altronde, dovrebbe invero rimanere un momento privato, vissuto nell’intimo della vita familiare, laddove possibile, all’occorrenza in presenza di un medico che decida in scienza e coscienza il da farsi. Il diritto dovrebbe, con le sue categorie spersonalizzanti e generalizzanti, tacere del tutto o entrare il meno possibile in siffatti contesti. Un siffatto diritto minimo rappresenterebbe, si crede, non solo il miglior modo di garantire l’accettazione culturale della morte da parte di chi si trovasse a confrontarsi con una situazione limite, ma anche la maniera più certa per scongiurare possibili abusi da parte di chi si sentisse in dovere di interpretare “al meglio” e “nell’esclusivo interesse” del paziente la volontà di questi. Il nostro auspicio è che lo Corte, nel vagliare la costituzionalità dell’articolo 580 del Codice penale, si sottragga all’arrembante dominio di logiche, sub-culture, ideologie simili e affermi il carattere imperituro –non legato cioè, come pure si vorrebbe far credere, ad una concezione giuridica che si pretende superata, quale sarebbe quella fascista alla cui epoca appartiene, tra l’altro, l’intero Codice e non solo la norma in questione– del principio intorno al quale è strutturato il nostro ordinamento, non quello dell’autodeterminazione di ciascuno, ma della sacra indisponibilità della vita di ciascuno.

[1]     Si rinvia ad un precedente articolo pubblicato dallo scrivente, consultabile al seguente liink: .

[2]     Si vedano, a titolo esemplificativo, due studi in particolare, alle pagine: e https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12151487.

[3]     Si veda il video al seguente link: https://video.repubblica.it/cronaca/processo-cappato-la-pm-siciliano-vedendo-ultimi-anni-di-vita-di-dj-fabo-viene-da-chiedersi-se-questo-e-un-uomo/294733/295347.

[4]     Si veda il video relativo a detta intervista al seguente link: https://www.radioradicale.it/scheda/533502/giustizia-intervista-a-marco-cappato.

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