Totò Riina, Una volta verrà il giudizio di Dio

La morte di Totò Riina, il boss mai pentito

Venerdì diciassette novembre duemiladiciassette.

Nella stanza di un carcere, nei tempi lunghi di una prigionia meritata, si dovrebbe poter arrivare a contare i battiti del proprio cuore, a sentire la morte come evento imminente, che appartiene al presente, in quell’inerzia di ore uguali che si assommano ad altre ore. Si può arrivare a temere il giudizio di Colui che pronuncerà la sentenza definitiva sulla nostra anima, a temere l’inferno o sentire l’inferno nelle grida disperate delle vittime che chiedono giustizia, notte e giorno, nei sogni, nei ricordi. E piangere, e pentirsi.

Lui no, così dicono, nessun pentimento.

Lui, Salvatore Riina, ‘u curtu, avrà ripercorso tante volte, a mente lucida, la scia di dolore e sangue lasciata dietro di sé in ottantasette anni di vita. I primi reati nella Corleone dov’era nato, entroterra palermitano, per lo più furti di bestiame; il primo delitto, giovanissimo; il carcere, lo sconto di pena, i legami con i mafiosi locali. Pian piano arrivare a guadagnare la fiducia dei Corleonesi, di Cosa nostra, con la vita di inermi liquidata con ferocia inaudita. La prima guerra di mafia, che vuol dire sparare a un nemico che ha la casacca del tuo stesso mostruoso colore; fare strage di avversari, i cosiddetti uomini “d’onore”; le vittime si contano a centinaia, assassinate in prima persona o mandate ad assassinare. La latitanza. E di nuovo i rivali che alzano la testa. La seconda guerra di mafia, il denaro abbondante del narcotraffico, ancora decine e decine di morti. E nel frattempo gli uomini di fiducia infiltrati nello Stato e, in parallelo, l’eliminazione sistematica, implacabile, di persone fedeli allo Stato perciò ritenute pericolose: magistrati, politici, generali.

Riina avrà assicurato ogni ricordo di quest’epoca come un trofeo, quando amici e rivali erano stati convertiti in lustrascarpe al suo servizio, lacchè, “quaquaraquà”, e lui, figlio di contadini, ora era al tal punto temuto per la sua ferocia da non avere rivali.

Ma la giustizia cammina, seppure falcidiata, minacciata. Al culmine del potere lo smacco: le rivelazioni del pentito Buscetta, e quindi il Maxiprocesso istituito da Falcone; sul banco degli accusati sfilano 475 mafiosi ; qualcuno ora parlerà, potrà incastrarlo, inchiodarlo. La furia di vendetta aumenta, non si placa la sete di potere. E così scorre il ’92, segnato per sempre nella memoria collettiva dai cinque quintali di tritolo deflagrati nella strage di Capaci, dove Giovanni Falcone, la moglie Francesca e la scorta perdono la vita e acquisiscono un posto nel paradiso dei giusti. Segnato dall’esplosivo in via d’Amelio dove Paolo Borsellino passava a trovare la madre; segnato dal sangue che bagna il quartiere Brancaccio di Palermo dove don Pino Puglisi recuperava i ragazzini dalla strada, li faceva giocare al sicuro. I mafiosi hanno pietà dei bambini, si credeva. Davvero? Un bambino, neppure tredici anni, Giuseppe, figlio del pentito Di Matteo, è afferrato dal quello stesso lungo artiglio che lo ghermisce, lo tiene prigioniero per due anni fino a farne una larva e non lo restituisce al padre neppure per quella pietà comune verso i defunti, ma ne vilipende il corpo, che viene sciolto nell’acido.

Di questo scorrere di eventi luttuosi, dilanianti, si conosceva  da tempo il mandante. Il limite però è superato. Quindi i carabinieri del Ros si attivano, mettono a segno l’arresto, dopo lunghissima latitanza del boss; e arriva la nemesi,  il carcere duro, il 41 bis, per ventiquattro anni, ma ancora nessuna parola di pentimento, fino a quel venerdì diciassette novembre duemiladiciassette che mette un punto alla sua vita. E che sembra il compiersi di un disegno.

Riina desta quella morbosa curiosità che si ha a volte verso il male assoluto; ma la mafia e tutto il denaro che porta con sé, è cosa sporca, insanguinata, genera un clima culturale di morte in cui è bene immergersi con cautela anche solo per sapere o capire.

Tanti i misteri che il corleonese celava, le trame nascoste, gli intrighi; a lungo si è sperato che il boss rivelasse qualcosa. Tutto è finito con la sua morte. Gli intervistatori hanno aperto allora i microfoni a vittime e famigliari. Tra le vittime, come non capire la sorella di Falcone, Maria, quando ha detto di non gioire per la morte di nessuno, ma al contempo di non poter offrire il perdono a Riina perchè lui non lo ha chiesto, ed anzi diceva di non avere niente di cui essere perdonato? Poi la curiosità dei media si sposta sulla figlia del boss che viene inquadrata mentre dice di avere tre figli minorenni da tutelare e che avrebbe denunciato i giornalisti invadenti.

Ma così facendo un rischio lo si corre. Fare servizi sui figli, mandare in visione film sui potenti uomini della mafia, voler ricavare una dimensione più umana di Riina, che pure ci sarà stata, come è logico che sia, rischia di portare a una sorta di giustificazione mediatica, di accondiscendenza generalizzata e in particolare al consenso di chi, giovanissimo, è attratto dal linguaggio provocatorio, dai gesti al di sopra di ogni legge o regola morale.

Per questo le pratiche mafiose vanno combattute radicalmente: il danno che comportano è incalcolabile non solo nell’immediato, ma anche nel futuro.

Una decisione chiara l’ha presa il vescovo di Monreale quando non ha voluto celebrare i funerali di Salvatore Riina: sui mafiosi infatti c’è la scomunica della Chiesa che custodisce ancora gelosamente le potenti parole del discorso fatto da Giovanni Paolo II ad Agrigento, l’otto maggio del ’93: “Questo popolo, popolo Siciliano talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte! Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di questo Cristo Crocifisso e risorto, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio.”

 

Antonietta Rossi

teen beauty samantha rone ties up cassidy klein in hot ropes.taiwan girls