Considerazioni a margine del Messaggio del Santo Padre alla World Medical Association sul “fine-vita”

Ad una settimana esatta dalla conclusione del Meeting Regionale Europeo dell’Associazione “World Medical Association”, promosso in Vaticano sulle questioni del cosiddetto “fine-vita” e co-organizzato in uno con la Pontificia Accademia per la Vita, parrebbe opportuno ritornare sulle parole che il Santo Padre ebbe ad indirizzare, nel suo Messaggio di saluto, al Presidente della istituzione pontificia surriferita ed ai partecipanti tutti al detto simposio, al fine di delineare una possibile chiave di lettura dei contenuti, molteplici e cruciali, ivi esposti. Il tempo ad oggi trascorso dall’evento è parso essenziale a far in modo che venissero profilandosi, nella sede giornalistica e più in generale mediatica, interpretazioni plurime delle riflessioni papali, molte delle quali volte a suggerire tesi di un possibile superamento del tradizionale magistero della Chiesa cattolica sui temi appunto dell’accompagnamento del morente, dell’accanimento terapeutico, dell’eutanasia, del ruolo del consenso informato nella formazione della coscienza libera del paziente. Quelle che seguono sono soltanto considerazioni a margine del Messaggio del Santo Padre, che dunque si affiancano a quelle già offerte in altre sedi e per questo assolutamente scevre da qualsiasi pretesa di esaustività, di ultimatività, di unicità o autenticità interpretativa, ma non per questo timide nell’articolare una proposta di lettura che si ponga perfettamente in linea con gli orientamenti che il magistero cattolico ha tradizionalmente osservato su questi temi, rifiutando pertanto a priori qualsivoglia interpretazione che, servendosi strumentalmente delle parole del Pontefice, puntasse a legittimare improbabili quanto pericolose derive dottrinali “avanguardiste” su detti punti.

In ordine ad essi, infatti, emerge tutto il peso dell’urgenza di decisioni che inesorabilmente verranno ad incidere su esistenze individuali pur sempre sospese nell’irriducibile mutevolezza della contingenza, l’imprevedibilità delle cui dinamiche non è ridotta, semmai amplificata, da un novero potenzialmente infinito di nuove opportunità che la tecnica –clinica, medica, farmacologica– oggi offre all’uomo. E qui il Santo Padre fa la sua la preoccupazione di una medicina che, perdendo di vista l’orizzonte terapeutico che le è proprio, prendesse a dispiegarsi come mero agire tecnico, disumanizzando del tutto quella dimensione operativa che, non ponendo più al centro il benessere complessivo della persona umana, si riducesse ad un’ossessione biologista unicamente attenta a mantenere in vita la funzionalità del corpo, dimentica della “salute integrale” del paziente stesso. È il  rischio di una deriva fisicista e reificante della medicina che va scongiurata facendo appello ad un “supplemento di saggezza”, come lo definisce il Papa, ovvero ricorrendo a quella virtù etica che sollecita ininterrottamente un’attenzione critica al dato effettuale, alla dimensione dell’agire pratico dalla quale muovere per poter discernere, in una maniera prudente, equilibrata, saggia appunto, il novero delle opportunità strumentali alla luce delle contingenze soggettive, lasciandosi guidare da una ragione illuminata dall’esperienza e assumendo come stella polare il principio assoluto del rispetto della dignità umana.

È in questo senso che l’approccio personalista alle questioni bioetiche, che non voglia ridursi a sterile e supina professione idoleogica, configura a sua volta la necessità di calarsi nella contingenza del vissuto individuale, nella complessità della concreta esperienza di vita del paziente, rischiarandone la problematicità esistenziale alla luce di un’escatologia che ne professi la singolarità unica ed irripetibile. Solo qui diviene possibile declinare operativamente il paradigma dell’etica della cura che, muovendo dall’esperienza della condivisione empatica della condizione di sofferenza del paziente, riproponga la questione della centralità di soggetti da considerarsi nelle loro svariate esigenze di relazionalità ed appartenenza, propiziando l’insorgere di quella dimensione dialogica imprescindile tra le parti coinvolte nel dramma della malattia. La cura, cioè, come esperienza morale che, rifuggendo i rigori spersonalizzanti del calcolo di ponderazione richiesto dall’applicazione mera di principi, si apra al senso dell’incontro con l’altro, innescando una logica trans-personale che fonda e giustifica il ricorso ad una riflessione propriamente morale.

Nella trasparenza dunque dell’imperativo che impone il rispetto assoluto della dignità personale di ogni uomo e che chiede altresì di incarnarsi nella concretezza pulsante del suo vissuto esistenziale, diviene possibile argomentare il “rifiuto fermo ad ogni forma di accanimento terapeutico”: rispettare la persona umana nella sua dignità significa esattamente prendere atto, in maniera scientifica, del fatto che il processo del vivere stia volgendo inesorabilmente a termine, significa cioè accettare i limti fisici della condizione umana ed anche la morte che ne può derivare, non smettendo di offrire al paziente e a quanti lo assistono ogni forma di cura e sostegno possibili. Il rifiuto all’accanimento terapeutico è stato tradizionalmente contemplato nei documenti del magistero della Chiesa fin dai tempi di Pio XII, che in un memorabile discorso rivolto ad anestesisti e rianimatori nel lontano 1957, proponeva di articolare una distinzione, poi divenuta canonica anche negli ambienti scientifici, tra mezzi ordinari e straordinari di cura, e a partire da questa suggeriva che gli sforzi rivolti a salvare la vita o a prolungare uno stato di particolare sofferenza possono essere lecitamente tralasciati quando hanno appunto un carattere di straordinarietà. Progressivamente, nell’ambito dell’etica medica si è avvertita l’inadeguatezza di tale distinzione, e così la stessa morale cattolica ha sentito il bisogno di un suo superamento definitivo. La Dichiarazione sull’eutanasia (1980) della Congregazione per la dottrina della fede ha così proposto un cambiamento di parametro di valutazione: «Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso di mezzi ‘straordinari’. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi ‘proporzionati’ e ‘sproporzionati’».

E proprio alla “proporzionalità delle cure” che fa riferimento Papa Francesco, alludendo ad esso come al criterio supremo cui guardare per operare quella dirimente chiarificazione in ordine a ciò che può  configurare un’ipotesi di accanimento. Ebbene il giudizio di proporzionalità attiene alla adeguatezza tecnico-medica di una data soluzione terapeutica, in vista del conseguimento di un dato obiettivo di salute o di sostegno vitale del malato. Un intervento medico, cioè, dovrebbe stimarsi sproporzionato e tale da configurare una forma di accanimento quando il beneficio che esso punta a realizzare è inferiore rispetto agli effetti collaterali che da esso originerebbero, ovvero quando non è in grado di procurare beneficio alcuno o infine quando esso appaia addirittura nocivo per la salute del paziente. In questo caso, la sospensione o non attivazione di un percorso terapeutico simile appare doveroso per il clinico, obbligato a prescindere, in queste situazioni, da qualsiasi possibile, ulteriore considerazione in merito, fosse anche offerta dal paziente.

Il fatto è che nella prassi clinica può talvolta risultare estremamente difficile decidere cosa sia accanimento e cosa no, domandandosi all’uopo non solo una grande competenza medica, ma anche una sensibilità umana non comune, che superi l’astrattezza di norme e regole nelle cui fattispecie tentare di sussumere la complessità irriducibile del caso concreto. Ma le difficoltà insite in un processo di valutazione simile, in nessun caso potrebbero legittimare la pretesa di addivenire ad una assimilazione tra accanimento terpaeutico e riconoscimento generalizzato di una facoltà soggettiva di rinuncia, incondizionata e decontestualizzata, alle cure. Il Santo Padre ha all’uopo precisato, con parole che non avrebbero potuto essere più chiare, che “non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte”. Anche questo appare pienamente in linea con il magistero tradizionale della Chiesa cattolica, il cui principale documento in materia rimane la dichiarazione Iura et bona pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 1980. Le tesi ivi sostenute, che compendiano gli insegnamenti della morale cattolica sui temi della malattia e della morte, sono state riprese e confermate nell’Enciclica Evangelium Vitae, nella quale, esattamente al numero 65, san Giovanni Paolo II ribadiva: «In conformità con il magistero dei miei predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana». Ma su questo punto avremo modo di tornare oltre.

Papa Francesco poi continua proponendo di non disancorare mai il giudizio medico sulla proporzionalità delle cure dalla ponderazione relativa “all’oggetto morale, alle circostanze, alle intenzioni dei soggetti coinvolti”, così da assicurare una considerazione adeguata della dimensione personale e relazionale della vita del paziente, che resta al centro della pratica clinica globalmente intesa. L’idea che fonda una simile assunzione è quella per la quale il paziente non è mai un individuo isolato ed anonimo cui applicare asetticamente delle conoscenze mediche, bensì un essere umano libero e responsabile chiamato a divenire il co-protagonista delle vicende che porteranno all’adozione di quelle strategie utili al conseguimento dell’obiettivo della sua guarigione o comunque del migliormanento delle sue condizioni generali di salute. In questo senso, se è vero che sarà chiamato a divenire il principale responsabile delle scelte terapeutiche che gli saranno applicate, è altresì vero che la libertà effettiva della sua scelta non richiede solo l’autonomia di poterla compiere senza condizionamenti, ma anche, e forse soprattutto, le conoscenze necessarie a fare in modo che si compia con piena consapevolezza. Ma anche su questo aspetto sarà opportuno aggiungere qualche considerazione ulteriore nel prosieguo della trattazione.

Il Pontefice si sofferma poi sulla considerazione delle asimmetrie esistenti, tra i diversi Continenti, i diversi Paesi, ma anche tra le diverse classi sociali all’interno di uno stesso Paese, quanto all’accesso alle opportunità terapeutiche, asimmetrie che alimetano quella che Papa Franesco definisce come una globale “ineguaglianza terapeutica” e che dovrebbe indurci a riflettere sulla sostenibilità effettiva dei sistemi sanitari. Per citare qualche esempio: le popolazioni dei paesi più ricchi e industrializzati hanno una speranza di vita che si avvicina agli 80 anni (Giappone: 82), mentre in molti Paesi dell’Africa sub-sahariana questo valore scende intorno ai 40 anni (Uganda: 40), con un netto aumento delle differenze rispetto a dieci anni or sono. Inoltre, le persone affette da HIV/AIDS dei paesi ricchi hanno a disposizione farmaci gratuiti o comunque accessibili contro l’infezione e la malattia, mentre questa possibilità è negata agli stessi malati dei paesi poveri. Vi è infine da rilevare che quasi 900 milioni di persone nel mondo non hanno accesso ai servizi sanitari essenziali. In effetti sembrerebbe che il problema del mancato accesso all’assistenza sanitaria per le fasce più povere della popolazione si situi a livello di una inadeguata distribuzione delle risorse finanziarie, il più delle volte eccessivamente contenute nei Paesi a basso reddito o iniquamente distribuite in quelli a medio reddito. Servirebbe quindi una strategia d’urto basata su investimenti massicci nei sistemi sanitari dei Paesi poveri e nel rendere accessibili i servizi pubblici essenziali, il che verrebbe ad avere effetti positivi anche in ordine alla riduzione della povertà e allo sviluppo economico di quegli stessi Paesi. Sia i governi dei Paesi poveri sia quelli dei Paesi ricchi sono chiamati cioè ad impegnarsi per mettere a disposizione le risorse necessarie per finanziare la salute dei più poveri, i primi rivedendo le priorità di spesa per aumentare la quota della ricchezza nazionale destinata alla salute, i secondi rivedendo le priorità negli interventi internazionali allo sviluppo e moltiplicando le risorse finanziare attualmente investite nel miglioramento della salute dei più poveri. Ma non è chi non veda come anche questo di una maggiore giustizia globale nell’accesso ai servizi sanitari essenziali rappresenti da sempre un ambito caro al magistero sociale della Chiesa cattolica, che non ha mancato, attraverso soprattutto le encliche cosiddette sociali dei Papi, di far sentire la sua voce per alleviare il peso insopportabile di tali ingiustizie che offendono la dignità dei singoli come dei popoli.

Alla fine del Messaggio, il Santo Padre torna sul tema della speciale prossimità umana che va sempre assicurata al malato, una prossimità che assume i tratti di un “accompagnamento responsabile”, che sappia farsi carico dell’esistenza di chi, interessato da uno stato di particolare vulnerabilità, fisica e psicologica, reclama una speciale solidarietà umana e cristiana. Si tratta di lasciarsi interpellare da quell’universo esistenziale, provato e piagato, che viene al nostro cospetto, di lasciasri attraversare dalla sofferenza di colui in cui si imbatte la nostra vita, per riprendere l’immagine del buon Samaritano usata dal Papa Francesco, e così interessarsi a lui, alla sua vita, alla sua vicenda, alla sua condizione. Tale prossimità sarà dimostrata al meglio non facendo mai mancare al paziente la possiblità di accedere, in tutta  sicurezza, libertà e gratuità, al complesso ed articolato novero delle cure palliative, ovvero a quell’insieme di interventi terapeutici, diagnostici ed assistenziali rivolti sia alla persona malata, sia al suo nucleo familiare, finalizzati a migliorare il più possibile la qualità della vita di quei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici. Anche il suggerimento di assicurare, a quest’ultima categoria di pazienti, l’accesso indiscriminato alle terapie palliative pare sia stato da sempre al centro delle preoccupazioni di pastorale sanitaria della Chiesa cattolica, evidenziando instancabilmente l’utilità e l’irrinunciabilità che esse vengono ad avere in vista di una più efficace salvaguardia, tutela e promozione della dignità della vita del paziente inguaribile di quanti lo assistano.

Al termine delle riflessioni esplicative appena esposte, volte ad offrire un approfondimento dei nodali spunti offerti dal Santo Padre in ordine alle questioni delicatissime del “fine-vita” passate in rassegna, vale la pena aggiungere ancora tre semplici precisazioni, che paiono necessarie a chiarire qualche ulteriore aspetto non sufficientemente affrontato nel documento pontificio. In primis, nella parte in cui il Papa parla della necessità di porre al centro delle decisioni terapeutiche il paziente, ribadendo la necessità che lo stesso sia chiamato, chiaramente in compagnia degli specialisti, a “valutare i trattamenti proposti e a giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta”, sembra voler, sebbene implicitamente, escludere la liceità di qualsiasi forma di dichiarazione volontaria soggettiva che disponga vincolativamente per l’avvenire circa i temi della salute e dei trattamenti che si accosente a ricevere. Il riferimento alla “situazione concreta” sembra infatti alludere univocamente alla necessità di una valutazione che sia svolta nell’attualità della malattia che il paziente si trova a vivere. Nella contingenza cioè della situazione che si profila al momento dell’elezione della terapia, il paziente sarà chiamato ad una professione di volontà che si vuole il più consapevole possibile: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità».

In questo senso, e veniamo alla seconda precisazione, la volontà che il paziente è chiamato ad esprimere, non lo rende mai titolare eslcusivo della potestà decisionale in ordine alle soluzioni terapeutiche da intraprendere: la decisione, da adottarsi in un costante “dialogo con i medici”, da un lato esclude che questi possano veder ridotto il loro ruolo a quello di meri “esecutori testamentari” delle dichiarazioni del paziente, dall’altro impone di offrire a quest’ultimo un’informazione sul suo stato e sulle prospettive terapeutiche che sia il più possibile completa e comprensibile, cercando senza coercizione la sua collaborazione, tenendo in debito conto dell’universo di valori, credenze e principi cui egli ha ispirato costantemente la sua vita e soprattutto considerando sempre lo stato di minorità e soggezione psicologica in cui egli versa a ragione della sua malattia.

Il clima di fiducia reciproca e di collaborazione dialogica che tale saggia prassi medica mira ad instauarare, permetterà, e veniamo finalmente alla terza ed ultima precisazione, di escludere in radice, il rischio di un’assolutizzazione osannante il principio di autonomia individuale, principio cui fa da contraltare l’altro, da sempre al centro delle teorizzazioni pastorali sulla vita della Chiesa cattolica, di indisponibilità della vita, sia altrui che propria. Quanto alla vita altrui, va qui ribadita la necessità di continuare a sanzionare, culturalmente oltre che giuridicamente, ogni forma di eutanasia, sia attiva che passiva, essendo le due pratiche accomunate da un’identica mentalità occisiva che le rende, a prescindere dalle soluzioni più o meno ingegnose impiegate per conseguirne gli effetti, deprecabili agli occhi della morale cristiana tradizionale. Quanto alla vita propria, vale la pena tornare a rimarcare la differenza, essenziale, che passa tra: 1) il rifiuto, maturato nel contesto di un  proficuo e sincero confronto dialogico medico-paziente, di quelle soluzioni terapeutiche che potrebbero apparire obiettivamente sproporzionate agli occhi di entrambi, in una oculata e pacata ponderazione tanto dei sacrifici richiesti quanto dei benefici attesi; 2) la rinuncia a priori, decontestualizzata, inattuale e prospettica, di qualsivoglia tipo di trattamento che dovesse risultare necessario a tenere in vita un’esistenza eventualmente compromessa dal sopraggiugere di una qualche forma grave di infermità o di invalidità. Se da sempre gli ordinamenti morali e giuridici, dell’occidente e non solo, hanno sanzionato comportamenti tesi a mettere in discussione il valore assoluto della vita umana, caricando di disvalore ogni atto, auto o etero-diretto, che ne configurasse un indebito attentato, appare quanto mai necessario proseguire in un’opera di contrasto di ogni iniziativa, culturale, morale o politica, che volesse avallare logiche dispositive, adottabili ad nutum, di tale bene-valore assoluto, dacché soluzioni simili finirebbero pur sempre col favorire l’affermazione di una cultura che discrimina, più o meno velatamente, tra vite degne e vite indegne, sul piano qualitativo, di essere vissute. E il fatto che il criterio che fondasse e legittimasse tale agire disciriminatorio non fosse normato pubblicamente ed una volta per tutte, ma lasciato di dirtto alla determinazione libera ed insindacabile di ognuno, non varrebbe a rendere il medesimo criterio meno pericoloso, né meno immorale.

Antonio Casciano

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