Biotestamento, Marina Casini: «Non esiste un diritto a morire»

La triste vicenda di Dj Fabo ha diviso l’Italia: da un lato ci sono i fautori dell’autodeterminazione assoluta che può essere riassunta nella frase “il corpo e mio e decido io”, dall’altro la galassia dei movimenti prolife che con forza ribadiscono che ogni vita è preziosa e va difesa, soprattutto nelle fasi più delicate e difficili, come nel caso dei malati gravi. Per fare chiarezza su alcuni aspetti spesso invocati dal fronte radicale abbiamo incontrato Marina Casini, giurista, bioeticista dell’Università Cattolica di Roma e vicepresidente del Movimento per la Vita.

D. Il disegno di legge sul biotestamento attualmente in discussione alla Commissione Affari Sociali della Camera presenta alcuni punti oscuri. Il primo attiene al principio di fondo secondo cui il paziente, ex ante, può disporre della propria vita, soprattutto nella sua fase terminale. Liberiamo subito il campo da equivoci: si può parlare tecnicamente di disponibilità della vita e di diritto a morire?

R. Non esiste un diritto a morire. Se il fondamento della disponibilità della propria vita fosse l’autodeterminazione,allora come l’autodeterminazione a morire sarebbe valida per il malato e il disabile dovrebbe esserlo anche per il giovane sano. Invece, se un giovane tenta di uccidersi buttandosi in un fiume o gettandosi da una finestra o bevendo un veleno, coloro che lo salvano buttandosi a nuoto nel fiume o usando la forza per impedire il lancio dall’alto o somministrando una lavanda gastrica, non solo non commettono il reato di violenza privata, ma vengono lodati e onorati dalla società. Addirittura sono puniti coloro che istigano al suicidio e anche coloro che, potendolo impedire, assistono inerti ad esso.

Ciò significa che il criterio decisivo non è quello dell’autodeterminazione. La differenza sta nella “qualità della vita”: la vita del giovane sano vale, quella del disabile e del malato non ha più valore. Si noti, però, che il giudizio di valore non è quello formulato dall’interessato. Anche l’aspirante suicida sano e giovane può valutare la sua vita non degna di essere vissuta e tuttavia la società rifiuta questo suo giudizio: fino a che egli accetta di restare sotto lo sguardo altrui, alla sua libertà si sovrappone la valutazione sociale. Egli non può privarsi della propria vita; la sua vita è indisponibile.Una riprova indiretta si ricava dalle norme sulla prevenzione degli infortuni e sulla circolazione stradale. Non solo il datore di lavoro, ma anche chi lavora in proprio è obbligato a rispettare le disposizioni antinfortunistiche. E se non lo fa, è punito. L’obbligo del casco per chi va in moto e della cintura sulle auto limita la libertà, ma è preordinato alla tutela della vita. Chi non usa il casco e la cintura è punito. In realtà, chi vuole la disponibilità della vita umana non considera decisiva l’autodeterminazione, ma la valutazione sociale della vita umana.

D. Ma nel dibattito legislativo sul “fine vita” viene frequentemente invocato il diritto a rifiutare le cure come effetto del principio di autodeterminazione …

R. La collaborazione del paziente è indispensabile affinché il trattamento terapeutico abbia effetto. D’altronde di fatto nessuno può essere obbligato a curarsi facendo ricorso alla forza fisica. Legare un malato e sottoporlo ad un intervento chirurgico che egli non vuole o anche soltanto per togliergli un dente o fargli un iniezione, sarebbe una violazionedella dignità umana. Ma cosa diversa è il consiglio, anche se insistente e pressante diretto ad ottenere il suo consenso. Il fine resta sempre quello della salute non quello dell’autodeterminazione. Ciò è tanto vero che di fronte ad un paziente che chiede di essere curato sarebbe immorale e probabilmente anche criminoso il rifiuto di effettuare la cura e anche il semplice consigliare di non farla. Si vede bene che le due situazioni sono diverse. La salute è il contrario della morte e la terapia ha come fine la salute mai la morte.

D. Un aspetto che merita di essere commentato è l’assenza del diritto all’obiezione di coscienza del medico che, in concreto, viene vincolato alla volontà del paziente senza poter mediare con le sue conoscenze tecniche e professionali il trattamento medico. Come valuta questa scelta?

R. La coscienza del medico non deve essere calpestata. Calpestare il diritto a sollevare obiezione di coscienza va nella direzione contraria ai diritti umani. È gravissimo che il testo in discussione preveda la trasformazione del medico da professionista chiamato ad agire in scienza e coscienza a mero suddito del “dictat” del paziente. La relazione di cura assume le caratteristiche di un rapporto contrattuale-mercantile caratterizzato da un deficit relazionale di reciprocità.Così viene spezzata quell’alleanza che lega la fiducia del paziente alla coscienza del medico; al fondamentale e civilissimo principio del non uccidere, si sostituisceil principio della “sacralità” dell’autodeterminazione anche se quanto richiesto al medico dovesse cagionare la morte.

D. Negli anni si sono succedute molte proposte di legge sul testamento biologico. Siamo passati dalle “dichiarazioni anticipate di trattamento” alle “disposizioni anticipate di trattamento”: è solo un vezzo linguistico oppure siamo davanti ad una vera trasformazione della figura del medico?

R. Siamo davanti a una vera trasformazione della figura del medico. Tra l’altro, faccio notare che il termine “Dichiarazioni” – in sé collegato a espressioni di volontà non vincolanti per il medico – presente nel titolo del testo, diviene significativamente mutato all’interno dell’articolato in “Disposizioni”, a sottolineare il carattere vincolante delle volontà, recependo così il modello di un vero e proprio “Testamento biologico”. Le parole “testamento”, “direttive”, “disposizioni”, “dichiarazioni” in origine sono state proposte con significati, portata e sfumature diverse. Tuttavia, sempre più spesso queste espressioni sono utilizzate come sinonimi nei diversi progetti e disegni di legge, nella pubblicistica e nella letteratura, nell’uso comune. Per questo è molto importante, valutare con molta attenzioneil contenuto delle proposte di legge.

D. Al fine di presentare positivamente questa proposta di legge spesso, nel dibattito politico si usa come vessillo il famoso art. 32 della Costituzione italiana, allargando il diritto alla salute anche al fantomatico “diritto alla morte”. Da giurista, come valuta tale impostazione?

R. Dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione si vorrebbe dedurre l’esistenza di un “diritto alla non cura”, esteso fino ad includere il “diritto di morire”, da porsi sullo stesso piano del diritto alla cura. Ma il significato originario dell’art. 32 non ha nulla a che vedere con il preteso “diritto di morire”. Non risulta da nessuna partedei lavori preparatori che il Costituente abbia inteso in qualche modo mettere in discussione il principio di indisponibilità della vita anche da parte del titolare della stessa. È noto, poi, che la formulazione ebbe origine dalla drammatica esperienza delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione attuate nei campi di sterminio. A parte queste considerazioni, l’art. 32 va letto e interpretato per intero. Esso recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dello individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il non obbligo è inserito tra l’attenzione alla dimensione sociale della salute e il rispetto della persona umana. L’attenzione sociale al tema della salute è espressione di un atteggiamento personalista in base al quale la collettività si fa carico di tutelare la salute dei singoli. Le persone in condizioni di indigenza, infatti devono essere messe dall’insieme dei consociati in condizione di curarsi. È dunque il “favorcurae” la sostanza dell’art. 32. Va considerato, inoltre, che l’art. 32 è collocato sotto il titolo II della Costituzione che riguarda i rapporti etico-sociali, quelli, cioè, che devono essere ispirati al principio di solidarietà. L’aspetto primario dell’art. 32 è quello di assicurare a tutti la salute. Il richiamo al rispetto della persona umana implica il diritto a non subire trattamenti sanitari con sistemi coattivi, offensivi, degradanti. Il “non obbligo di cura” significa che non c’è un dovere strettamente giuridico – coercibile e munito di sanzione – di curarsi, ma non significa né assenza di un dovere morale-civico di curarsi laddove non vi è una legge “obbligante”, né libera disponibilità della vita o della morte, della salute o della malattia. Il richiamo al principio dell’inviolabilità della libertà di cui all’art. 13 Cost. per legittimare la scelta di morire attraverso il rifiuto delle cure è paradossale: la scelta di morire contraddice radicalmente la libertà. Se la libertà è inviolabile, come può essere annientabile? Come la vita anche la libertà è indisponibile. Non si può affermare che la scelta della morte sia scelta di libertà. Essa è, piuttosto, distruzione della libertà.

Il Movimento per la Vita si è fatto promotore di una petizione alla quale hanno aderito numerose associazioni. Leggi il testo della petizione e firma qui.

Massimo Magliocchetti

Massimo Magliocchetti

Laureato in Giurisprudenza con 110/110 e Lode, con una tesi in bioetica del lavoro dal titolo "Maternità e lavoro. La protezione della lavoratrice madre nell'ordinamento italiano". Appassionato di bioetica e biodiritto, amo il fumo lento della pipa. Volontario del Movimento per la Vita, sono stato Responsabile dei Giovani di Roma e provincia del MpV. Scrivo per servizio e passione.

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